lunedì 9 gennaio 2012

“Perché le mamme devono lavorare?”
Storia di un bambino e della sua mamma


Nella stanza semibuia filtra dalle persiane un rivolo d’oro dove passano a lieve ondata granelli di pulviscolo. Sono le due, è estate. Un silenzio greve di fuori, rotto solo dal rumore delle cicale. Di là, nell’altra stanza, una voce canta:

Il mondo, non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno e il giorno verrà…


Mia mamma mi ha lasciato in camera mia per sbrigare le sue faccende. Ma tiene lì con me, nella stanza, la sua voce a proteggermi, quasi avesse paura che, a ritirarla, io mi dovessi svegliare. Io sono già sveglio in realtà, ma ho fatto finta di dormire ancora, per farla contenta. Il dottore ha detto: “Questo bambino deve dormire” e poi altre parole difficili che non ho capito. Allora ho chiuso gli occhi e appesantito il respiro. Del resto a me va bene così: ho quel canto a farmi compagnia, a rendere migliori le mie giornate. Non sto bene, ho qualcosa che nessuno capisce. O almeno io non lo capisco, ma accanto a me ho la mia mamma che non mi lascia mai solo. Insieme a lei anche i miei giochi, i miei puffi, le mie macchinine e tante, tante ruspe.
Quante gliene ho fatte comprare ai miei genitori. Mi arrabbiavo tantissimo se non me le compravano, tanto da buttarmi sdraiato per terra davanti a ogni negozio di giocattoli che incontravo, e a far sprofondare di vergogna tutti. Allora mi beccavo una sonora e meritata sculacciata.
In quella stanza mi sentivo il più felice bambino del mondo, trovavo tutto quello che mi serviva per essere sereno. Anche quando ero da solo perché mamma e babbo andavano a lavorare. Io stavo lì, giocavo con i miei “amici”. La tenda con Pluto, Topolino, Paperino e Minni mi sovrastava e faceva sembrare quel mio mondo un parco giochi.
Aspettavo che tornasse mamma, alle due in punto. La mattina lei preparava già in cucina l’acqua nella pentola e io, venti minuti prima che arrivasse, l’accendevo. Così quando tornava la pasta era già pronta e mangiavamo tutti insieme.
La sentivo vicina anche quando non c’era perché il suo amore è sempre stato accanto a me: una assente presenza. Una cosa però non mi andava giù: “Perché le mamme devono lavorare?”. Una domanda ricorrente che facevo a mamma ogni volta che mi sentito un po’ più solo. In realtà avrei sempre voluto che lei restasse con me, anche se avevo sempre il mio bel da fare con pistole, robot, mostri e naturalmente ruspe di ogni genere.
Ricordo una volta che davanti alla finestra di camera mia, dissi una cosa che a una mamma non andrebbe mai detta. Innocenza e indecenza di un bambino di otto anni: “Perché non sei come la mamma di Johnatan?”. Johnatan era il mio amichetto del piano di sopra che aveva una mamma molto bella, magra e bionda. Non so perché le disse quella brutta frase, ma ora che ci penso un motivo c’era. Probabilmente perché la mamma del mio amico non lavorava. Forse, vista l’età, non mi riferivo tanto al suo aspetto fisico, quanto al fatto che lei era sempre in casa con lui.
A volte mi sentivo solo anche quando lei c’era. Una volta, di pomeriggio, mia mamma uscì una mezz’oretta per comprare alcune cose all’alimentari giù all’angolo. Preso dal panico perché la luce andò via, uscii in pieno inverno in ciabatte e pigiamino, sbattendo anche la porta, per andarla a cercare. Ho un ricordo nitido di quel momento e della paura folle che provai. Ma come un angelo salvatore lei apparse: mi trovò per strada che piangevo alla sua disperata ricerca e mi riportò a casa. La luce così era già tornata, e non era quella elettrica.
In occasioni del genere trovavo anche il modo di farmi molto male. Quando caddi dalla bici e la leva del freno mi entrò in un occhio. A momenti mi accecavo. Andai verso di lei terrorizzato e barcollante: “Mamma! Vedo due mamme!”. Via di corsa all’ospedale. Poi quando con il mio super motorino elettrico della polizia, facevo immaginari inseguimenti tra il salotto e la sala da pranzo. Girando e rigirando attorno al tavolino da caffè della sala, il motorino si piegò su me stesso e io finii con la testa nello spigolo di legno. Via di corsa all’ospedale anche quella volta: tre punti sulla fronte. Quanta pazienza. Dare sempre, senza mai voler nulla in cambio.
Vedo ancora la mia mamma accompagnare il dottore alla porta e ringraziarlo, non tanto per la visita, quanto per averle detto che non è nulla di grave, che guarirò presto. La vedo ancora sorridere, salutare, poi richiudere piano la porta e tornare da me, verso la cameretta dove io giaccio con la testa fasciata. Viene tacchettando, ma smorza subito il passo quando vedo che dormo: “Che bambino obbediente, dorme già”, deve aver pensato. E’ delizioso per me pensare che la pensi così. Vorrei se fosse possibile rendere ancora più evidente il mio sonno, esagerarlo. Farla felice mi rendeva felice.
Il sonno è sempre stato un elemento in comune fra noi due. La domenica era sacra per lei che ogni mattina si alzava alle cinque. Io che invece mi alzavo prestissimo, non aspettavo altro che quel giorno per averla subito tutta per me. Ma lei la sera prima, mi chiedeva amorevolmente, di lasciarla dormire un po’ di più. Io intanto mi portavo avanti con i miei giochi e ogni tanto andavo a sbirciare nella camera grande. Guardavo se avesse aperto gli occhi e se potevo saltare con lei nel lettone e guardare la televisione insieme. Quell’operazione la facevo anche dieci volte. Ma fino a quando non la vedevo completamente sveglia, non mi azzardavo ad aprire bocca e tornavo di là con i miei mostriciattoli.
Pensare a mia mamma anche oggi è un incantamento salvatore nei momenti di sconforto. Unico scoglio in un mare in tempesta. Quella voce che canta nell’altra stanza mi aiuta a non soffrire. E’ come una ninna nanna che a volte mi addormenta anche di giorno, mi incanta da sveglio. Credo che quella fosse l’unica frase che ricordava di quella canzone, ma che per me rappresentava tutto di lei. Fosse solo per il fatto che usciva dalla sua voce.
Mia madre è bella, anche se lei non si è mai piaciuta. E’ una bella persona e a me ha dato tutto quello che sono oggi. Non è vecchia che quel tanto che le hanno imposto le pene che le ho dato e la vita che ha vissuto. Le ho visto nascere le rughe a una a una sul volto e a volte penso che alcune le sono venute per causa mia. Solcate, scavate da me per alcune preoccupazioni. Preoccupazioni di mamma, che guai non ci fossero. Ma non voglio chiederle perdono perché di quelle rughe lei, sono sicuro, ne va fiera e non la fanno sentire vecchia neanche un po’.
Giovane e bella dentro con tanta energia da scalare una montagna. Da lei ho preso tutto, anche questo brutto carattere che porto con me e con il quale ormai ho imparato a convivere.
Quando ero un frugoletto ero ancora più malato. Quello però è stato il periodo più bello della mia vita, fra me e mia madre. Noi due insieme, tutti i giorni, tutto il giorno. L’amore di una mamma quando un figlio è malato si moltiplica mille volte, e questo mi faceva sentire sano e felice come nessun altro.
E’ maggio, mio babbo pensa a me la mattina quando mi sveglio. Mi veste per la scuola, latte e pane per colazione. Giretto in macchina con i clienti. Giochi e scherzi aspettando che torni mamma. Un giorno a pranzo mi fa trovare un pollo intero sul tavolino del mio seggiolone. Malaticcio come sono non riesco nemmeno a pensare cosa fosse. Ma le foto che mi fecero con quel bestione davanti, più grande della mia testa, sono di una tenerezza unica. Così come quando, a Cesenatico, babbo mi andava a prendere in bici l’acqua di mare con dei secchielli. Poi la svuotava in una tinozza per il bucato e aspettava che il sole la riscaldasse per poi immergermi dentro e farmi sciacquettare per un’ora. Tutti e tre insieme, il vero senso della vita. Il motivo unico perché questa lunga storia valga la pena di essere vissuta.
Il quel periodo il nostro rifugio toscano al mare era Torre del Lago, come oggi del resto. Il dottore disse a mia mamma: “Se vuole che questo bambino guarisca deve portarlo al mare”. Partimmo a maggio e tornammo a settembre. Tutta l’estate insieme, io e la mia mammona. Non c’era nessuno con il quale potessi stare meglio, anche perché mi coccolava come una chioccia e io di questo, non del mare, avevo maggiormente bisogno per guarire. Su e giù, andata e ritorno, quattro volte al giorno, da casa al mare in passeggino, più di quattro chilometri a piedi, mattina e sera. E me lo ricordo anche adesso. Non stavo in piedi, ero debolissimo e non mangiavo. Ma quei mesi mi rimisero al mondo. Amore e mare, cura perfetta per la mia anemia. Il sole non era solo in alto nel cielo azzurro, ma anche in quegli occhi che quando mi guardavano emanavano calore tanto da scaldarmi il cuore. Il sole non riusciva in questo, la mia mamma sì.
E’ il mio sogno ricorrente. Tornare bambino, giocare di nuovo con lei, spaccarmi la testa e farmi curare. Mi vedo sdraiato sul mio letto, con lei vicino che mi mette un film della “Carica dei 101” sul proiettore Super 8, una, due, tre, cento volte. Poi va in cucina, torna, con un pezzo delle sue eccezionali torte. Me la lascia mangiare sul letto anche se sbriciolo dappertutto. Niente di più dolce, incredibile emozione che mi lascia senza respiro ogni volta che ci penso.
Questa è mia mamma, tutto quello che ricordo lo custodirò nella mente per tutta la mia vita. Lei, invece, resterà con me anche dopo. Grazie mamma, buon compleanno.
Fabrizio.

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