venerdì 6 gennaio 2012

FRUGANDO NEI CASSETTI DI MONTANELLI

Fabrizio Boschi


Pare di vederlo ancora, con gli occhi sgranati e le sopracciglia aggrottate che guarda dritto verso i suoi lettori (come in quella bella foto di Guido Harari del 1998), quasi a rimproverarli, un po’ contrariato con se stesso per essersi congedato dal suo pubblico a soli 92 anni, e un po’ arrabbiato con loro per aver cercato di rimpiazzarlo. Quegli occhi, da qualche punto del cielo, stanno guardando in basso, preoccupati.
Lui che amava così tanto i suoi lettori, che considerava come unici padroni, che quasi venerava, non potrebbe sopportare il fatto che nelle sue stanze ci possa essere entrato qualcun altro a dialogare con loro. E, infatti, nessuno ci è riuscito.
Sono già dieci anni che Indro Montanelli non c’è più. Dieci anni che il giornalismo italiano è monco, senza più una voce di riferimento alla quale rivolgersi quando non si sa più che direzione prendere.
Sono successe tante cose in dieci anni, ma soprattutto due hanno scandito la nostra vita e cambiato il corso della storia: l’attacco all’America dell’11 settembre e, due mesi fa, l’uccisione del regista di quel tragico avvenimento, Osama Bin Laden. Come in un assurdo gioco del destino, come se anche dal cielo qualcuno gli avesse chiesto di battere ancora sulla sua Lettera 22, il primo evento è successo nel 2001, due mesi dopo la sua morte e, l’altro nel 2011, due mesi prima il decimo anniversario.
In entrambi i casi, e per tutto ciò che ci sta in mezzo, Indro non c’è stato e non ha potuto raccontare, commentare, come solo lui sapeva fare, questo nuovo folle mondo. Chissà se si sarebbe divertito a farlo? Chissà cosa avrebbe detto e scritto? E’ questo che, a distanza di due lustri, ancora oggi tutti si chiedono. E’ questo che manca più di lui. Montanelli è stato il maestro delle parole da non usare, dei libri da non scrivere, dei commenti crudeli da non fare, della gente da non frequentare, delle tentazioni cui saper resistere. Dunque, forse è andato via al momento giusto, in tempo per non vedere altro orrore, e su questo va rassicurato: non c’è stato ancora nessuno in grado di rimpiazzarlo. 
Senza di lui il giornalismo italiano è da dieci anni più scialbo. Orfano di un padre che lo ha coccolato per 70 anni. Indro Montanelli è morto in una calda domenica d’estate del 2001, mentre per le strade di Genova imperversava la guerriglia del G8.
Lui, che nel corso della sua lunga vita si è trovato di fronte a lei una decina di volte, aveva cercato di familiarizzare anche con la morte, gli dava del tu. “Invidio coloro che temono l’Inferno. Io non temo nulla. E per questo ho tanta paura. Credo in Qualcuno. Non credo che saprò mai, né da vivo né da morto, chi è e com’è fatto”. E ancora: “I funerali li vorrei sempre di notte, compreso il mio”.
Nell’ultimo giorno prima di andarsene, quasi l’avesse deciso lui stesso, si è preso gioco anche della Signora con la falce, lasciando ai suoi lettori un ultimo bellissimo omaggio: un necrologio scritto di suo pugno. Un gesto di rispetto e di amore per ringraziare tutti coloro che in settant’anni di giornalismo lo hanno apprezzato e seguito. Non lo diceva tanto per dire: riteneva davvero i lettori gli unici ai quali i giornalisti dovrebbero dare ascolto. Diceva sempre che con i lettori “ci andava a letto”. I suoi appartenevano a una sorta di club privè, rinchiusi in quelle “Stanze” che per anni hanno accolto le loro voci, i commenti e le incazzature di tutti gli italiani. “Io vivo di lettori, i lettori non m’impongono altra servitù che la sincerità: l’unica che non pesi”.
Montanelli, dieci anni dopo, ha ancora meno voglia di dimostrare che ha sempre avuto ragione. Anche perché non amava elogiarsi nemmeno da vivo, figuriamoci postumo. A farlo al suo posto (solo dopo morto gli è stato permesso) è la Fondazione Montanelli-Bassi di Fucecchio, da lui voluta e fondata, che nel 10° anniversario della sua scomparsa, domani sera alle 21,30, ha organizzato in collaborazione con il Comune di Fucecchio e con l’associazione "Il ponte mediceo", il concerto "Musiche nel giardino dei ciliegi". Non in un luogo a caso, ma a Villa Bassi, luogo tanto caro a Indro.
“Da quando è morto, tutti hanno fatto a gara per scrivere libri su di lui – dice il presidente della Fondazione, Alberto Malvolti -, non si è mai arrestata la processione di persone ai suoi studi di Milano e Roma che abbiano riprodotto fedelmente qui a Fucecchio e tutti ci chiedono sempre: chissà cosa avrebbe detto oggi di tutto ciò che succede in Italia e nel mondo. Può essere considerato banale, ma a dispetto di quello che Montanelli stesso diceva, lui non era solo un giornalista ma molto, molto di più. Ecco perché tanti oggi si sentono privati di quel punto di riferimento”.
Anche per il sindaco di Fucecchio, Claudio Toni, “si avverte tutt’oggi la sua mancanza, il suo contributo sarebbe necessario più di ieri per capire verso quale direzione etica e morale stiamo andando. E poi, nell’anno dell’Unità d’Italia sarebbe stato formidabile avere ancora in mezzo a noi questo incredibile testimone del Novecento”.
Questo toscanaccio purosangue (la sua famiglia era fucecchiese fin da quasi un millennio), lasciò il suo paese nell’adolescenza per tornarvi solo saltuariamente, coltivando il mito delle “Vedute”, la villa dei Bassi appunto, sulle colline boscose delle Cerbaie. In tanti erano convinti che non amasse Fucecchio, anzi che quasi se ne vergognasse. Ma non era così. Qui aveva passato i più bei momenti dell’infanzia accanto a Emilio e Ida Bassi, che lui chiamava “nonni”, in realtà solo amici di famiglia che il padre Sestilio e la madre Maddalena frequentavano, portando con sé il piccolo Indro. Il ricordo di quei luoghi dell’infanzia rimase vivo e si fece anzi più acuto negli ultimi anni, quando più spesso tornava a Fucecchio, per rivedere i pochi vecchi amici che gli erano rimasti. Montanelli, ammetteva in più occasioni che se ciò che era diventato lo doveva a Milano, ciò che era lo doveva a Fucecchio.
Questo attaccamento venne completamente allo scoperto il giorno del suo 90esimo compleanno (il babbo Sestilio lo festeggiò come lui per la prima volta alla stessa età). Davanti a tutta la città riunita e agli amici di una vita, nella chiesa di “insù”, dove lui era nato, raccontò un sogno ricorrente che lo tormentava da tempo: il giardino dei ciliegi, appunto, quello di villa Bassi.
«Ci sono io, salgo a piedi la collina che conduce alla villa, in mezzo al bosco. Da bambino il bosco, tra i due padule di Fucecchio e Bientina, era il mio regno. Arrivo fino al cancello della villa, ormai è un giardino dei ciliegi. Entro, suono il campanello e mi viene ad aprire il me stesso che è rimasto lì. Tale e quale a me, solo più vecchio.
Mi dice "Cosa vuoi?". E io dico: "Vorrei entrare". Dice che non ne ho il diritto. "Tu te
ne sei andato, hai avuto una bella vita, successi, avventure, donne. Qui sono rimasto io. Vedi le mie rughe? Sono le stesse della villa. Sono rimasto solo a difendere questo
giardino dei ciliegi. Questo è il mio mondo, tu non ci puoi entrare, non appartieni più a questo mondo”. Rimorsi a parte, per fortuna Montanelli non è rimasto dentro a quel giardino, altrimenti chissà quante cose ci saremmo persi. “La mia eredità? Sono io! Io appartengo solo a me stesso”, gli piaceva dire. E’ vero, la sensazione oggi, frugando nei suoi cassetti, sfogliando i suoi diari, curiosando fra le sue carte, leggendo i suoi libri e articoli, è che sia ancora qui, a discernere su tutto e su tutti.
“Non beatificatemi troppo, perché non riuscirete a pareggiare il conto”. Diceva di avere una sola preoccupazione da morto: quella di non diventare un monumento, “fra le altre cose perché i monumenti sono troppo frequentati dai piccioni”. Accontentato. Come Montanelli, nessuno mai.

Nessun commento:

Posta un commento