martedì 10 gennaio 2012

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose




Il più delle volte, questa citazione di Albert Einstein si ferma qui.

Questa frase è già un insegnamento a sè stante, ma leggendo il resto si scopre che è azzeccatissima per il periodo che si sta delineando a livello globale.

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. 
La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perchè la crisi porta progressi. 
La creatività nasce dall'angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura. 
E' nella crisi che nasce l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie.


Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. 
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e da più valore ai problemi che alle soluzioni.


La vera crisi è la crisi dell'incompetenza. 
L'inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie d'uscita. 
Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. 
Senza crisi non c'è merito. 
E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perchè senza crisi tutti i venti sono lievi brezze.


Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. 
Invece, lavoriamo duro. 
Finiamola una volta per tutto con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla.

                                                                                                                           Albert Einstein

lunedì 9 gennaio 2012

“Perché le mamme devono lavorare?”
Storia di un bambino e della sua mamma


Nella stanza semibuia filtra dalle persiane un rivolo d’oro dove passano a lieve ondata granelli di pulviscolo. Sono le due, è estate. Un silenzio greve di fuori, rotto solo dal rumore delle cicale. Di là, nell’altra stanza, una voce canta:

Il mondo, non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno e il giorno verrà…


Mia mamma mi ha lasciato in camera mia per sbrigare le sue faccende. Ma tiene lì con me, nella stanza, la sua voce a proteggermi, quasi avesse paura che, a ritirarla, io mi dovessi svegliare. Io sono già sveglio in realtà, ma ho fatto finta di dormire ancora, per farla contenta. Il dottore ha detto: “Questo bambino deve dormire” e poi altre parole difficili che non ho capito. Allora ho chiuso gli occhi e appesantito il respiro. Del resto a me va bene così: ho quel canto a farmi compagnia, a rendere migliori le mie giornate. Non sto bene, ho qualcosa che nessuno capisce. O almeno io non lo capisco, ma accanto a me ho la mia mamma che non mi lascia mai solo. Insieme a lei anche i miei giochi, i miei puffi, le mie macchinine e tante, tante ruspe.
Quante gliene ho fatte comprare ai miei genitori. Mi arrabbiavo tantissimo se non me le compravano, tanto da buttarmi sdraiato per terra davanti a ogni negozio di giocattoli che incontravo, e a far sprofondare di vergogna tutti. Allora mi beccavo una sonora e meritata sculacciata.
In quella stanza mi sentivo il più felice bambino del mondo, trovavo tutto quello che mi serviva per essere sereno. Anche quando ero da solo perché mamma e babbo andavano a lavorare. Io stavo lì, giocavo con i miei “amici”. La tenda con Pluto, Topolino, Paperino e Minni mi sovrastava e faceva sembrare quel mio mondo un parco giochi.
Aspettavo che tornasse mamma, alle due in punto. La mattina lei preparava già in cucina l’acqua nella pentola e io, venti minuti prima che arrivasse, l’accendevo. Così quando tornava la pasta era già pronta e mangiavamo tutti insieme.
La sentivo vicina anche quando non c’era perché il suo amore è sempre stato accanto a me: una assente presenza. Una cosa però non mi andava giù: “Perché le mamme devono lavorare?”. Una domanda ricorrente che facevo a mamma ogni volta che mi sentito un po’ più solo. In realtà avrei sempre voluto che lei restasse con me, anche se avevo sempre il mio bel da fare con pistole, robot, mostri e naturalmente ruspe di ogni genere.
Ricordo una volta che davanti alla finestra di camera mia, dissi una cosa che a una mamma non andrebbe mai detta. Innocenza e indecenza di un bambino di otto anni: “Perché non sei come la mamma di Johnatan?”. Johnatan era il mio amichetto del piano di sopra che aveva una mamma molto bella, magra e bionda. Non so perché le disse quella brutta frase, ma ora che ci penso un motivo c’era. Probabilmente perché la mamma del mio amico non lavorava. Forse, vista l’età, non mi riferivo tanto al suo aspetto fisico, quanto al fatto che lei era sempre in casa con lui.
A volte mi sentivo solo anche quando lei c’era. Una volta, di pomeriggio, mia mamma uscì una mezz’oretta per comprare alcune cose all’alimentari giù all’angolo. Preso dal panico perché la luce andò via, uscii in pieno inverno in ciabatte e pigiamino, sbattendo anche la porta, per andarla a cercare. Ho un ricordo nitido di quel momento e della paura folle che provai. Ma come un angelo salvatore lei apparse: mi trovò per strada che piangevo alla sua disperata ricerca e mi riportò a casa. La luce così era già tornata, e non era quella elettrica.
In occasioni del genere trovavo anche il modo di farmi molto male. Quando caddi dalla bici e la leva del freno mi entrò in un occhio. A momenti mi accecavo. Andai verso di lei terrorizzato e barcollante: “Mamma! Vedo due mamme!”. Via di corsa all’ospedale. Poi quando con il mio super motorino elettrico della polizia, facevo immaginari inseguimenti tra il salotto e la sala da pranzo. Girando e rigirando attorno al tavolino da caffè della sala, il motorino si piegò su me stesso e io finii con la testa nello spigolo di legno. Via di corsa all’ospedale anche quella volta: tre punti sulla fronte. Quanta pazienza. Dare sempre, senza mai voler nulla in cambio.
Vedo ancora la mia mamma accompagnare il dottore alla porta e ringraziarlo, non tanto per la visita, quanto per averle detto che non è nulla di grave, che guarirò presto. La vedo ancora sorridere, salutare, poi richiudere piano la porta e tornare da me, verso la cameretta dove io giaccio con la testa fasciata. Viene tacchettando, ma smorza subito il passo quando vedo che dormo: “Che bambino obbediente, dorme già”, deve aver pensato. E’ delizioso per me pensare che la pensi così. Vorrei se fosse possibile rendere ancora più evidente il mio sonno, esagerarlo. Farla felice mi rendeva felice.
Il sonno è sempre stato un elemento in comune fra noi due. La domenica era sacra per lei che ogni mattina si alzava alle cinque. Io che invece mi alzavo prestissimo, non aspettavo altro che quel giorno per averla subito tutta per me. Ma lei la sera prima, mi chiedeva amorevolmente, di lasciarla dormire un po’ di più. Io intanto mi portavo avanti con i miei giochi e ogni tanto andavo a sbirciare nella camera grande. Guardavo se avesse aperto gli occhi e se potevo saltare con lei nel lettone e guardare la televisione insieme. Quell’operazione la facevo anche dieci volte. Ma fino a quando non la vedevo completamente sveglia, non mi azzardavo ad aprire bocca e tornavo di là con i miei mostriciattoli.
Pensare a mia mamma anche oggi è un incantamento salvatore nei momenti di sconforto. Unico scoglio in un mare in tempesta. Quella voce che canta nell’altra stanza mi aiuta a non soffrire. E’ come una ninna nanna che a volte mi addormenta anche di giorno, mi incanta da sveglio. Credo che quella fosse l’unica frase che ricordava di quella canzone, ma che per me rappresentava tutto di lei. Fosse solo per il fatto che usciva dalla sua voce.
Mia madre è bella, anche se lei non si è mai piaciuta. E’ una bella persona e a me ha dato tutto quello che sono oggi. Non è vecchia che quel tanto che le hanno imposto le pene che le ho dato e la vita che ha vissuto. Le ho visto nascere le rughe a una a una sul volto e a volte penso che alcune le sono venute per causa mia. Solcate, scavate da me per alcune preoccupazioni. Preoccupazioni di mamma, che guai non ci fossero. Ma non voglio chiederle perdono perché di quelle rughe lei, sono sicuro, ne va fiera e non la fanno sentire vecchia neanche un po’.
Giovane e bella dentro con tanta energia da scalare una montagna. Da lei ho preso tutto, anche questo brutto carattere che porto con me e con il quale ormai ho imparato a convivere.
Quando ero un frugoletto ero ancora più malato. Quello però è stato il periodo più bello della mia vita, fra me e mia madre. Noi due insieme, tutti i giorni, tutto il giorno. L’amore di una mamma quando un figlio è malato si moltiplica mille volte, e questo mi faceva sentire sano e felice come nessun altro.
E’ maggio, mio babbo pensa a me la mattina quando mi sveglio. Mi veste per la scuola, latte e pane per colazione. Giretto in macchina con i clienti. Giochi e scherzi aspettando che torni mamma. Un giorno a pranzo mi fa trovare un pollo intero sul tavolino del mio seggiolone. Malaticcio come sono non riesco nemmeno a pensare cosa fosse. Ma le foto che mi fecero con quel bestione davanti, più grande della mia testa, sono di una tenerezza unica. Così come quando, a Cesenatico, babbo mi andava a prendere in bici l’acqua di mare con dei secchielli. Poi la svuotava in una tinozza per il bucato e aspettava che il sole la riscaldasse per poi immergermi dentro e farmi sciacquettare per un’ora. Tutti e tre insieme, il vero senso della vita. Il motivo unico perché questa lunga storia valga la pena di essere vissuta.
Il quel periodo il nostro rifugio toscano al mare era Torre del Lago, come oggi del resto. Il dottore disse a mia mamma: “Se vuole che questo bambino guarisca deve portarlo al mare”. Partimmo a maggio e tornammo a settembre. Tutta l’estate insieme, io e la mia mammona. Non c’era nessuno con il quale potessi stare meglio, anche perché mi coccolava come una chioccia e io di questo, non del mare, avevo maggiormente bisogno per guarire. Su e giù, andata e ritorno, quattro volte al giorno, da casa al mare in passeggino, più di quattro chilometri a piedi, mattina e sera. E me lo ricordo anche adesso. Non stavo in piedi, ero debolissimo e non mangiavo. Ma quei mesi mi rimisero al mondo. Amore e mare, cura perfetta per la mia anemia. Il sole non era solo in alto nel cielo azzurro, ma anche in quegli occhi che quando mi guardavano emanavano calore tanto da scaldarmi il cuore. Il sole non riusciva in questo, la mia mamma sì.
E’ il mio sogno ricorrente. Tornare bambino, giocare di nuovo con lei, spaccarmi la testa e farmi curare. Mi vedo sdraiato sul mio letto, con lei vicino che mi mette un film della “Carica dei 101” sul proiettore Super 8, una, due, tre, cento volte. Poi va in cucina, torna, con un pezzo delle sue eccezionali torte. Me la lascia mangiare sul letto anche se sbriciolo dappertutto. Niente di più dolce, incredibile emozione che mi lascia senza respiro ogni volta che ci penso.
Questa è mia mamma, tutto quello che ricordo lo custodirò nella mente per tutta la mia vita. Lei, invece, resterà con me anche dopo. Grazie mamma, buon compleanno.
Fabrizio.

venerdì 6 gennaio 2012

FRUGANDO NEI CASSETTI DI MONTANELLI

Fabrizio Boschi


Pare di vederlo ancora, con gli occhi sgranati e le sopracciglia aggrottate che guarda dritto verso i suoi lettori (come in quella bella foto di Guido Harari del 1998), quasi a rimproverarli, un po’ contrariato con se stesso per essersi congedato dal suo pubblico a soli 92 anni, e un po’ arrabbiato con loro per aver cercato di rimpiazzarlo. Quegli occhi, da qualche punto del cielo, stanno guardando in basso, preoccupati.
Lui che amava così tanto i suoi lettori, che considerava come unici padroni, che quasi venerava, non potrebbe sopportare il fatto che nelle sue stanze ci possa essere entrato qualcun altro a dialogare con loro. E, infatti, nessuno ci è riuscito.
Sono già dieci anni che Indro Montanelli non c’è più. Dieci anni che il giornalismo italiano è monco, senza più una voce di riferimento alla quale rivolgersi quando non si sa più che direzione prendere.
Sono successe tante cose in dieci anni, ma soprattutto due hanno scandito la nostra vita e cambiato il corso della storia: l’attacco all’America dell’11 settembre e, due mesi fa, l’uccisione del regista di quel tragico avvenimento, Osama Bin Laden. Come in un assurdo gioco del destino, come se anche dal cielo qualcuno gli avesse chiesto di battere ancora sulla sua Lettera 22, il primo evento è successo nel 2001, due mesi dopo la sua morte e, l’altro nel 2011, due mesi prima il decimo anniversario.
In entrambi i casi, e per tutto ciò che ci sta in mezzo, Indro non c’è stato e non ha potuto raccontare, commentare, come solo lui sapeva fare, questo nuovo folle mondo. Chissà se si sarebbe divertito a farlo? Chissà cosa avrebbe detto e scritto? E’ questo che, a distanza di due lustri, ancora oggi tutti si chiedono. E’ questo che manca più di lui. Montanelli è stato il maestro delle parole da non usare, dei libri da non scrivere, dei commenti crudeli da non fare, della gente da non frequentare, delle tentazioni cui saper resistere. Dunque, forse è andato via al momento giusto, in tempo per non vedere altro orrore, e su questo va rassicurato: non c’è stato ancora nessuno in grado di rimpiazzarlo. 
Senza di lui il giornalismo italiano è da dieci anni più scialbo. Orfano di un padre che lo ha coccolato per 70 anni. Indro Montanelli è morto in una calda domenica d’estate del 2001, mentre per le strade di Genova imperversava la guerriglia del G8.
Lui, che nel corso della sua lunga vita si è trovato di fronte a lei una decina di volte, aveva cercato di familiarizzare anche con la morte, gli dava del tu. “Invidio coloro che temono l’Inferno. Io non temo nulla. E per questo ho tanta paura. Credo in Qualcuno. Non credo che saprò mai, né da vivo né da morto, chi è e com’è fatto”. E ancora: “I funerali li vorrei sempre di notte, compreso il mio”.
Nell’ultimo giorno prima di andarsene, quasi l’avesse deciso lui stesso, si è preso gioco anche della Signora con la falce, lasciando ai suoi lettori un ultimo bellissimo omaggio: un necrologio scritto di suo pugno. Un gesto di rispetto e di amore per ringraziare tutti coloro che in settant’anni di giornalismo lo hanno apprezzato e seguito. Non lo diceva tanto per dire: riteneva davvero i lettori gli unici ai quali i giornalisti dovrebbero dare ascolto. Diceva sempre che con i lettori “ci andava a letto”. I suoi appartenevano a una sorta di club privè, rinchiusi in quelle “Stanze” che per anni hanno accolto le loro voci, i commenti e le incazzature di tutti gli italiani. “Io vivo di lettori, i lettori non m’impongono altra servitù che la sincerità: l’unica che non pesi”.
Montanelli, dieci anni dopo, ha ancora meno voglia di dimostrare che ha sempre avuto ragione. Anche perché non amava elogiarsi nemmeno da vivo, figuriamoci postumo. A farlo al suo posto (solo dopo morto gli è stato permesso) è la Fondazione Montanelli-Bassi di Fucecchio, da lui voluta e fondata, che nel 10° anniversario della sua scomparsa, domani sera alle 21,30, ha organizzato in collaborazione con il Comune di Fucecchio e con l’associazione "Il ponte mediceo", il concerto "Musiche nel giardino dei ciliegi". Non in un luogo a caso, ma a Villa Bassi, luogo tanto caro a Indro.
“Da quando è morto, tutti hanno fatto a gara per scrivere libri su di lui – dice il presidente della Fondazione, Alberto Malvolti -, non si è mai arrestata la processione di persone ai suoi studi di Milano e Roma che abbiano riprodotto fedelmente qui a Fucecchio e tutti ci chiedono sempre: chissà cosa avrebbe detto oggi di tutto ciò che succede in Italia e nel mondo. Può essere considerato banale, ma a dispetto di quello che Montanelli stesso diceva, lui non era solo un giornalista ma molto, molto di più. Ecco perché tanti oggi si sentono privati di quel punto di riferimento”.
Anche per il sindaco di Fucecchio, Claudio Toni, “si avverte tutt’oggi la sua mancanza, il suo contributo sarebbe necessario più di ieri per capire verso quale direzione etica e morale stiamo andando. E poi, nell’anno dell’Unità d’Italia sarebbe stato formidabile avere ancora in mezzo a noi questo incredibile testimone del Novecento”.
Questo toscanaccio purosangue (la sua famiglia era fucecchiese fin da quasi un millennio), lasciò il suo paese nell’adolescenza per tornarvi solo saltuariamente, coltivando il mito delle “Vedute”, la villa dei Bassi appunto, sulle colline boscose delle Cerbaie. In tanti erano convinti che non amasse Fucecchio, anzi che quasi se ne vergognasse. Ma non era così. Qui aveva passato i più bei momenti dell’infanzia accanto a Emilio e Ida Bassi, che lui chiamava “nonni”, in realtà solo amici di famiglia che il padre Sestilio e la madre Maddalena frequentavano, portando con sé il piccolo Indro. Il ricordo di quei luoghi dell’infanzia rimase vivo e si fece anzi più acuto negli ultimi anni, quando più spesso tornava a Fucecchio, per rivedere i pochi vecchi amici che gli erano rimasti. Montanelli, ammetteva in più occasioni che se ciò che era diventato lo doveva a Milano, ciò che era lo doveva a Fucecchio.
Questo attaccamento venne completamente allo scoperto il giorno del suo 90esimo compleanno (il babbo Sestilio lo festeggiò come lui per la prima volta alla stessa età). Davanti a tutta la città riunita e agli amici di una vita, nella chiesa di “insù”, dove lui era nato, raccontò un sogno ricorrente che lo tormentava da tempo: il giardino dei ciliegi, appunto, quello di villa Bassi.
«Ci sono io, salgo a piedi la collina che conduce alla villa, in mezzo al bosco. Da bambino il bosco, tra i due padule di Fucecchio e Bientina, era il mio regno. Arrivo fino al cancello della villa, ormai è un giardino dei ciliegi. Entro, suono il campanello e mi viene ad aprire il me stesso che è rimasto lì. Tale e quale a me, solo più vecchio.
Mi dice "Cosa vuoi?". E io dico: "Vorrei entrare". Dice che non ne ho il diritto. "Tu te
ne sei andato, hai avuto una bella vita, successi, avventure, donne. Qui sono rimasto io. Vedi le mie rughe? Sono le stesse della villa. Sono rimasto solo a difendere questo
giardino dei ciliegi. Questo è il mio mondo, tu non ci puoi entrare, non appartieni più a questo mondo”. Rimorsi a parte, per fortuna Montanelli non è rimasto dentro a quel giardino, altrimenti chissà quante cose ci saremmo persi. “La mia eredità? Sono io! Io appartengo solo a me stesso”, gli piaceva dire. E’ vero, la sensazione oggi, frugando nei suoi cassetti, sfogliando i suoi diari, curiosando fra le sue carte, leggendo i suoi libri e articoli, è che sia ancora qui, a discernere su tutto e su tutti.
“Non beatificatemi troppo, perché non riuscirete a pareggiare il conto”. Diceva di avere una sola preoccupazione da morto: quella di non diventare un monumento, “fra le altre cose perché i monumenti sono troppo frequentati dai piccioni”. Accontentato. Come Montanelli, nessuno mai.
“GLOBALIZZAZIONE E PROBLEMI AMBIENTALI”

“L’acqua come strumento di pressione degli Stati:
 implicazioni politico-strategiche e giuridiche”

Fabrizio Boschi


1.1. L’acqua come strumento politico-strategico degli Stati.

Le guerre future non si faranno più per motivi politici o per il petrolio e non solo per questioni etniche o religiose, ma per l’acqua. Sin dall’antichità l’acqua è stata un elemento importante per la difesa delle regioni. Soprattutto in parti del mondo come il Mediterraneo e il Medio Oriente questa è stata utilizzata come strumento di difesa o di offesa e come arma di pressione politica (“idropolitica”) o di propaganda. Oggi come allora molti Stati vivono periodi di tensione legati alla scarsità di questa risorsa e usano l’acqua come strumento politico e strategico per difendersi, per fare ritorsioni e per ottenere concessioni. L’acqua è ormai un fattore geopolitico di primaria importanza non solo come confine fra Stati ma come risorsa comune fra popoli che in quanto tale genera tensioni e conflitti.

In passato la questione acqua è sempre stata legata ad altri temi in discussione tra gli Stati. Quando i rapporti sono tesi e scivolano verso il confronto armato, oppure quando una delle parti in causa ha necessità di raggiungere un determinato risultato, spesso accade che quanti sono chiamati a stipulare l’accordo finale scendano a compromessi sulla questione delle risorse idriche, in modo da ottenere quello che considerano il loro scopo principale.
Se nell’antichità l’attacco alle riserve idriche era un punto centrale delle strategie usate per scopi politici e militari, oggi, con gli sviluppi tecnologici nel campo idrico, l’uso e il dominio dell’acqua è divenuto così importante che si può parlare di “deterrenza idrica”.
Nella storia l’acqua è stata via via obiettivo di conquista, bersaglio militare, arma e ha costituito l’oggetto di numerose controversie a causa dei limiti che la sua carenza pone allo sviluppo dei vari paesi, sia per la disuguaglianza nella distribuzione che per gli impatti secondari di infrastrutture, come dighe e bacini artificiali.
Le nuove e più recenti linee di analisi ed interpretazione hanno rivolto l’attenzione al problema delle risorse idriche da un doppio punto di vista strategico: a) per ciò che il loro controllo significa come strumento di pressione militare e di pressione economica sui singoli paesi; b) per ciò che il loro controllo significa per le scelte dei modelli di sviluppo da adottare. La geopolitica dell’acqua, l’uso di questa “energia” a scopi di pressione economica e militare nasce dallo scontro tra ipotesi di sviluppo diverse.
In una prima analisi non appare chiaro quali siano i legami tra la guerra e l’acqua. Cosa, dunque, lega la guerra all’acqua? L’acqua sta diventando una delle risorse strategiche del pianeta, attorno a cui si attiveranno comportamenti conflittuali, con il generalizzarsi di una connotazione di scarsità che oggi può essere ascritta solo ad alcune zone aride. La scarsità delle risorse e delle alternative sono i fattori che danno origine alle dispute tra gli Stati.
E’ immediatamente evidente, inoltre, che strategicità e conflittualità si manifestano soprattutto nei paesi in via di sviluppo: gran parte delle aree caratterizzate da aridità si trovano nei sistemi territoriali del sottosviluppo, ma non è però una regola fissa. Il tutto, in un quadro di ancora insufficiente attenzione per la sostenibilità d’uso della risorsa ed in un contesto geopolitico che non ha definitivamente sancito lo spinoso problema dei corpi idrici internazionali, la cui ripartizione deve tener conto delle nuove esigenze degli attori territoriali, dei mutevoli rapporti di forza, delle variabili alleanze o contrapposizioni che si attivano tra Paesi rivieraschi, spesso ancora coinvolti in difficili processi di legittimazione e autoaffermazione.
Se l’acqua può essere direttamente all’origine di conflitti, i recenti conflitti mostrano una crescente tendenza al suo uso come arma da guerra. Più la risorsa è rara, più il conflitto rischia di essere grave. Il conflitto dipende dal rispettivo ruolo che tendono ad avere i paesi presenti nella regione. Per questo motivo zone con gravi carenze come il Medio Oriente sono all’origine di situazioni più conflittuali rispetto ai paesi dell’Africa equatoriale, dove l’acqua è più presente.
In un certo numero di paesi la pressione sulle risorse idriche è diventata tale da costituire nello stesso tempo un attributo e un simbolo del potere politico e potrebbero crearsi dei conflitti qualora gli Stati coinvolti volessero essere certi dei propri approvvigionamenti. L’acqua è un fattore critico per la sopravvivenza personale e nazionale e poiché scorre da un territorio all’altro, l’accesso ad essa può facilmente essere ostacolato da decisioni altrui[1].
L’acqua sta tornando a rappresentare la risorsa più desiderabile (più ancora del petrolio) e il comportamento conflittuale è stimolato da tre motivi fondamentali: l’ineguale accesso alle risorse idriche; il degrado della risorsa che ne diminuisce la quantità a disposizione; la crescita della popolazione.
I rischi aumentano se vi si aggiungono le rivalità tra paesi che mirano ad acquisire una supremazia regionale e che dispongono di un forte armamento. Senza essere in una situazione di scarsità permanente (water stress zone), una rapida crescita demografica (India e Bangladesh), rivalità etniche o religiose (India, Pakistan, Slovacchia e Ungheria), squilibri nel grado di sviluppo dei paesi interessati (Israele e Giordania, Stati Uniti e Messico) o l’insieme di tutti questi fattori possono essere all’origine di conflitti. Le riserve idriche da cui dipendono milioni di persone sono un obiettivo politico-strategico dei governi a discapito delle popolazioni civili. Da Aden a Monrovia, da Beirut a Kabul, la guerra si combatte oggi nelle città, per l’acqua. Dobbiamo dire però che non sempre l’acqua è il fattore scatenante di una disputa tra Stati ma a volte ha il ruolo di concausa del conflitto che però porta ad aggravarlo, vista la sua importanza di vita.
Rispetto al passato oggi le guerre sono più infrastatuali che interstatuali. Una delle principali caratteristiche di questi conflitti è che investono le zone urbane in quanto sono conflitti perlopiù civili all’interno degli Stati. In un simile contesto sono soprattutto gli impianti idrici che diventano obiettivi di primaria importanza per mettere in ginocchio un’intera nazione. La loro distruzione o il loro danneggiamento costituiscono un mezzo di pressione in grado di infliggere un duro colpo all’avversario. Anche se gli attacchi possono non riguardare direttamente la popolazione civile in realtà hanno gli stessi effetti e il governo di quella nazione vedendo la sua popolazione allo stremo delle forze è costretto a desistere dal combattere.
L’acqua in quanto obiettivo strategico è, dunque, sempre più spesso all’origine di situazioni conflittuali tra Stati, risolte molto spesso, in mancanza di una vera legislazione in materia, con l’uso della forza. Infatti in tutti i continenti vi sono molti bacini comuni a più Stati e questo aumenta la possibile conflittualità[2]. L’acqua è stata spesso utilizzata dagli Stati sia per delimitare una frontiera, sia come mezzo strategico e tattico per difendersi dai nemici o per attaccarli o come strumento di pressione o di propaganda. L’acqua si è trovata spesso a fungere da delimitazione delle frontiere tra Stati, soprattutto per ragioni di visibilità sul terreno o su una carta o per ragioni tecniche, e questo suo ruolo ha determinato nella storia diverse tensioni in varie parti del mondo proprio per la difficoltà di stabilire a quali Stati spettasse lo sfruttamento di quelle acque messe a confine dei loro territori. Se poi a questo si aggiungono problematiche inerenti alla sfera politica, economica, religiosa, etnica o quant’altro caratterizzante di certi paesi, allora si comprende bene come anche come questo fattore, a prima vista sottovalutabile, possa giocare un ruolo importante nella provocazione dei conflitti o nella loro soluzione.
I fattori che rendono le risorse idriche un elemento di rivalità strategica sono: il grado di scarsità[3]; il grado in cui l’offerta idrica è ripartita tra gli Stati di uno stesso bacino idrico; il potere relativo degli Stati di un bacino idrico; la facilità di accesso a fonti alternative di acqua. Le risorse idriche possono essere viste dagli Stati come uno strumento strategico e tattico, nonché come strumento di difesa di un territorio. Da diversi anni ormai l’acqua ha assunto, nelle relazioni tra gli Stati, un preciso valore, in particolare come arma per far pressione politica sugli Stati antagonisti (“idropolitica”) al fine di ottenere vantaggi o benefici politici o economici. Questo ha condotto spesse volte a controversie violente ed endemiche tra gli stessi che hanno portato a vere e proprie guerre, magari non mosse soltanto da questioni legate all’acqua ma certamente esacerbate dalla mancanza o dall’appropriazione di questa risorsa da parte di uno Stato.
         Il possesso e il controllo dell’acqua è un fattore di sicurezza per gli Stati che ne sono carenti, al pari della capacità militare, o di posizioni strategicamente vantaggiose. Lo Stato che riesce ad utilizzare più acqua, possiede contemporaneamente più potere perché è in grado di sviluppare la sua industria e la sua agricoltura, può assicurare ai suoi cittadini maggiore benessere, può costruire un ordine stabile all’interno dei suoi confini, può arricchirsi, in breve può trasformarsi in uno Stato potente. Soprattutto, può negoziare con i suoi vicini da una posizione di forza, facendo uso di un’arma eccezionale. Il bisogno di acqua è, dunque, gestito come una vera e propria arma politica e militare della quale si è sempre tenuto conto durante le negoziazioni tra Stati, e viene sfruttato per trattare e avanzare pretese, costituendo così, insieme alla questione dei confini, il nodo principale degli accordi di pace. L’acqua diviene in questi casi una vera arma di negoziazione.
Nel caso dei bacini idrici internazionali, la conflittualità (latente o manifesta) è inevitabile nella misura in cui gli Stati rivieraschi di corso superiore intraprendono azioni capaci di inficiare (direttamente o indirettamente) lo sfruttamento delle acque da parte degli altri rivieraschi. Tale conflittualità è spesso esasperata dal fatto che non esiste alcun meccanismo istituzionale di consultazione, né alcun corpus giuridico che regoli la spartizione o l’utilizzo delle risorse idriche comuni a più paesi. Tale assenza di coordinamento è imputabile innanzitutto alla mancanza di fiducia politica reciproca nel senso più ampio dell’espressione; in questa situazione è chiaro che l’acqua funziona da efficace deterrente politico.
La divisione tra upstreamers (Stati a monte) e downstreamers (Stati a valle) ha originato una serie di servitù, in modo che ogni Stato vede dipendere le sue risorse idriche dal paese upstreamer. La catena di dighe e di deviazioni costituite spesso più per reazione e per astio che non per un reale bisogno, ha prodotto nel tempo un sistema ad effetto domino, in cui ogni Stato upstreamer può letteralmente ricattare gli Stati downstreamers. L’arma dell’acqua è tanto più efficace quanto lo Stato a valle è più debole e quanto più soffre di penuria. Sfruttamenti realizzati da un solo paese situato a monte possono provocare una serie di reazioni a catena nei paesi rivieraschi a valle, modificando così l’equilibrio e aumentando i rischi di conflitto. Il controllo del corso superiore di un fiume conferisce a priori un vantaggio, soprattutto in caso di penuria.
Secondo Homer-Dixon, è normale che il conflitto interstatale per le acque dolci sia più probabile quando lo Stato a valle del fiume è molto dipendente dalla risorsa ed è più forte dal punto di vista militare rispetto al suo vicino che sta a monte e che può utilizzare l’acqua come mezzo di coercizione[4].
Il ricorso o meno alla water weapon dipende dalla distribuzione del potere tra i paesi interessati: “più uno Stato è vulnerabile a penurie idriche o a interruzioni nei rifornimenti, più l’arma acqua costituisce una tentazione. Analogamente, tanto più debole è lo Stato a valle, tanto maggiore è la probabilità che l’arma acqua venga utilizzata”[5].
L’acqua, in quanto obiettivo strategico, è sempre più spesso all’origine di situazioni conflittuali tra Stati risolte molto spesso con l’uso della forza. In tutti i continenti vi sono bacini o fiumi in comune fra più Stati e questo aumenta la possibilità di conflitti. Le cause della scarsezza dell’acqua sono in parte geografiche e in parte politiche, cioè provocate dalle decisioni dei governi di privare un certo paese della sua razione d’acqua costruendo magari dighe o acquedotti che mirano a sfruttare al massimo un fiume o un lago in comune fra più Stati. La costruzione di dighe rappresenta spesso un vero e proprio casus belli.
In linea generale gli impianti idrici tendono sempre a diventare, in caso di conflitti, obiettivi tattici o strategici per gli Stati, quando non addirittura essi siano l’elemento di contesa tra paesi per la spartizione di fiumi o laghi. Rinunciare alle reti idriche come obiettivo strategico durante una guerra dipende dai politici che decidono di attenersi all’impegno richiesto dalle Convenzioni di Ginevra ma, se i politici vogliono una guerra totale, i militari non possono fare altro che accontentarli. Nel 1991, quando gli alleati bombardarono Baghdad, la rete idrica fu accuratamente evitata, ma furono resi inutilizzabile tutti gli approvvigionamenti della città perché le pompe erano alimentate a energia elettrica e le forze alleate distrussero tutte le centrali elettriche della città, e colpire una centrale elettrica equivale a bombardare la rete idrica. Sei mesi dopo la fine dei bombardamenti, quando la Croce Rossa e le altre organizzazioni di soccorso iniziarono a lavorare per riparare le tubature, il numero di casi di malattie connesse alla mancanza d’acqua, come tifo, epatite e dissenteria, aumentò, soprattutto nei bambini.
La penuria d’acqua conseguente alla mancanza di energia è molto comune nei conflitti attuali. I colpi inferti alle centrali elettriche spesso provocano il blocco totale della rete di distribuzione idrica. Mostar, Sarajevo, Aden, Monrovia, Mogadiscio e Kigali, sono solo qualche esempio tra le tante città che devono affrontare questo problema.
La maggior parte delle centrali vengono bombardate perché, oltre alla popolazione civile, riforniscono anche le basi militari e quindi possono essere considerate “obiettivi militari” e come tali essere legittimati dalle Convenzioni di Ginevra.
La scarsità di acqua provoca spesso controversie e conflitti, soprattutto quando uno stesso bacino è diviso tra due o più nazioni. Una delle cause del conflitto per le risorse idriche è legata al fatto che l’acqua scorre da un paese all’altro, noncurante dei confini politici. La scarsità tende a generare tensioni intra e interstatuali che, in alcuni casi, si sono già tradotte in gravi fattori di destabilizzazione o, addirittura, in veri e propri conflitti armati. Non di rado, peraltro, si rileva un’inversione del nesso di causalità tra penuria idrica e conflittualità interstatuale nel senso che è proprio quest’ultima ad indurre alcuni paesi ad attribuire al controllo delle risorse idriche rilevanza strategica e ad appropriarsi di una quota, non sempre giustificata da esigenze interne, in tal modo provocando o rendendo più acuta la penuria negli Stati vicini[6].
Una corretta gestione delle risorse idriche, che tenga conto delle interdipendenze che esistono tra sviluppo economico e sociale e disponibilità di acqua, e consideri l’utilizzazione multifunzionale della stessa, assume, pertanto, un peso sempre più importante per stemperare questi conflitti. Una valutazione effettiva delle relazioni economiche che esistono tra una domanda in crescita ed un’offerta stagnante, renderebbe più facile l’allocazione delle risorse idriche tra usi alternativi facendo contemporaneamente, diminuire il rischio di una non poi tanto futuribile guerra per l’acqua in quelle aree geografiche con deficit divenuti ormai cronici e con dispute territoriali in atto[7].
Su un totale di 25 paesi mediterranei, otto di questi si trovano al di sotto della soglia critica. L’incapacità degli Stati di trovare soluzioni nei bacini idrografici sotterranei e superficiali conduce a stati di inquietudine e “idroparanoia”. In tutto il mondo aleggia lo spettro della “guerra dell’acqua”. Il Medio Oriente è la regione al mondo a più alta “tensione idrica” nella quale cioè esistono più casi di “idroconflittualità” anche se per il momento allo stato latente. In nessun’altra parte del mondo come in Medio Oriente si sente altrettanto la necessità di amministrare con parsimonia le poche risorse idriche. Il Medio Oriente è forse l’esempio migliore di regione in cui l’approvvigionamento idrico ha avuto chiare implicazioni strategiche. Israele si scontra contro Siria e Giordania sullo sfruttamento del fiume Giordano e dei suoi affluenti. Il controllo di queste acque, attualmente usate per la maggior parte da Israele, fu uno dei motivi della guerra arabo-israeliana del 1967.
La questione dell’acqua in Medio Oriente è stata una “non guerra” nella quale Turchia e Siria si sono impegnate in una strategia della tensione con l’acqua utilizzata come strumento di pressione per dirimere altri problemi. L’importanza dell’acqua nella diplomazia e nell’economia internazionale si pone ancora una volta in termini concreti; quello che fino a qualche tempo fa era solamente uno strumento di lotta politica assume via, via una importanza strategica dovuta alla scarsità di acqua che affligge il Medio Oriente. Le dispute dell’acqua del Medio Oriente appaiono l’inizio di un’era nella quale i calcoli geostrategici contano più delle ideologie.
Il contesto più allarmante è dunque rappresentato dalla regione del Vicino e Medio Oriente dove si sommano scarsità di risorse, forte crescita demografica e nazionalismi esasperati. I principali bacini idrici della regione rappresentano le diverse facce della stessa guerra dell’acqua. In tutti i casi un solo Stato ha assunto il ruolo di attore chiave operando nella convinzione che i loro bisogni e i loro diritti di Stati più uguali degli altri diano loro la precedenza rispetto agli altri rivieraschi. In questo contesto, sulla scia dell’interscambio economico sempre maggiore tra i paesi del Medio Oriente e tra questi e il resto del mondo, cresce anche l’interdipendenza tra gli Stati e tra le popolazioni e cresce la competizione per accaparrarsi le risorse d’acqua disponibili.
Una guerra per l’acqua in Medio Oriente probabilmente non scoppierà mai, o almeno non vi sarà alcun conflitto che abbia per oggetto esclusivo la contesa per l’acqua. Ma quest’ultima continuerà ad essere sicuramente un potentissimo strumento di ricatto politico, che passerà sopra la sensibilità internazionale e la povertà delle popolazioni della regione. Ed è in questa prospettiva che bisogna intervenire: cercare di elaborare soluzioni ragionevoli per la gestione delle risorse idriche vuol dire suggerire strategie atte a ridurre il potenziale intrinseco di ricatto di cui è dotata questa straordinaria risorsa, fonte di vita e di distruzione allo steso tempo.
Anche nei recenti conflitti, le fonti di approvvigionamento idrico (acquedotti, dighe, centrali idroelettriche) sono alcuni dei principali obiettivi dei bombardamenti delle forze nemiche, perché la distruzione di questi punti strategici può mettere in ginocchio un intero paese. Le risorse idriche possono essere utilizzate come armi (water weapon) per danneggiare o distruggere il nemico.
Quella che passa sotto il nome di “idropolitica” cioè la “non guerra dell’acqua” è costituita da una serie di rappresaglie, di pressioni, in cui l’acqua è la posta in gioco. Il fattore conflittuale scaturisce qualora due o più Stati o popoli si trovino a doversi dividere uno stesso tratto di fiume o un lago o ancor peggio quando tali risorse idriche risultano essere confine tra gli Stati. A questo punto l’acqua diventa uno strumento strategico e tattico di alcuni Stati che possono manovrarlo come arma per ottenere vantaggi politici (c.d. idropolitica) o economici (c.d. idroeconomia), come strumento di pressione o addirittura come strumento di ricatto durante accordi di pace oppure peggio, come strumento offensivo per condurre uno scontro armato (c.d. zone idroconflittuali).
In alcuni casi l’acqua può essere utilizzata come strumento di azioni terroristiche (“idroterrorismo”). In periodi di crisi esiste il rischio che gruppi terroristici, talvolta manovrati da questo o da quello Stato possano per esempio minacciare di distruggere una diga o uno stabilimento per il trattamento dell’acqua potabile. Il rischio aumenta quanto più la crisi si aggrava. Un altro rischio sta sia in un’aggressione “quantitativa” sia in un’aggressione “qualitativa”, che consiste nell’inquinamento volontario dell’acqua magari con agenti chimici, batteriologici o addirittura radioattivi effettuato contro installazioni di stoccaggio o di distribuzione di acqua destinata al consumo alimentare.
Nella maggior parte dei paesi coinvolti in conflitti per la spartizione delle risorse idriche questi sono sempre risolti con la violenza. Il rischio sarà tanto più reale quanto più gli Stati interessati riterranno che vengano attaccati interessi vitali mettendo in pericolo la loro sicurezza. E’ una sorta di “dilemma idrico della sicurezza” (water security dilemma). In particolare nei paesi dove le risorse idriche sono scarse l’assenza di soluzioni a questo tipo di problemi può creare tensioni regionali e trovare sfogo in azioni violente e di sabotaggio. Il mantenimento della sicurezza internazionale dipenderà dalla capacità della comunità internazionale di reagire imponendo una più equa ripartizione della risorsa idrica, trasferendo l’acqua dai bacini in eccedenza a quelli deficitari[8].
Una nuova materia, l’idropolitica, assieme agli strumenti dell’economia e delle scienze sociali, tenta di individuare i trend che attraversano la vita quotidiana e gli affari di milioni di persone. L’idropolitica nasce da un’antica preoccupazione che gli Stati oggi riscoprono a causa di una serie di fattori impellenti di natura climatica, economica o geopolitica. In Medio Oriente l’acqua è già finita da un pezzo, almeno tre decenni, attorno agli anni Settanta. Nessuno dei leaders della regione naturalmente ha mai osato dirlo: sarebbe stato un suicidio politico perché significava ammettere il fallimento dei piani di sviluppo agricoli e di autosufficienza alimentare. La “nuova ecologia” è anche una disciplina politica, perché le decisioni da prendere per risolvere la crisi ambientale, ammesso che si sia ancora in tempo, sono essenzialmente politiche.
L’acqua rischia davvero di diventare una risorsa sempre più rara e di conseguenza sempre più preziosa (il c.d. “oro blu”) a tal punto che alcuni esperti di politica internazionale prevedono già che essa sia in questo millennio un interesse primario al pari del petrolio attorno al quale ruoteranno le politiche economiche degli Stati e che potrebbe portare all’esplosione di tensioni se non addirittura di conflitti. La scarsità di risorse idriche potrebbe dar adito ad una mercificazione di questo bene e potrebbe entrare a far parte di quel regime di concorrenze che caratterizzano altri tipi di prodotti primo fra tutti il petrolio, fino ad arrivare alla nascita, magari, di cartelli multinazionali dell’acqua, al livello delle “Sette Sorelle”.
Sul piano economico l’acqua, come per tutti i beni di cui aumenta la domanda, si è già trasformata in una merce rara: il mercato idrico varrà nei prossimi anni trecento miliardi di dollari, cifre che stanno spingendo gli investitori a ritenere che questo sarà il petrolio del Duemila. L’ “oro blu” ha già di fatto preso il posto dell’ “oro nero” nelle priorità strategiche del Medio Oriente, ed è per questo motivo di interesse economico che la possibilità di conflitti tra Stati aumenta.
Attribuire all’acqua un valore economico e cioè concepirla in termini di mercato non appare del tutto soddisfacente come alcune esperienze hanno dimostrato. Il prezzo e la quantità d’acqua assegnata sarebbero stabiliti dal mercato e non da un’autorità amministrativa. Tuttavia l’acqua, risorsa vitale, non può essere vista come un bene paragonabile agli altri. Ciò concentrerebbe il controllo delle risorse nelle mani delle grandi compagnie minerarie e produttrici di energia elettrica a scapito degli utenti provocando speculazione e penuria. Inoltre, il mercato dei diritti sull’acqua non saprebbe regolare il problema degli investimenti da realizzare in settori non redditizi come la prevenzione delle inondazioni, l’erosione dei suoli, ecc. Secondo alcuni l’acqua andrebbe considerata come un bene gratuito paragonabile all’aria, in particolare nei paesi con scarse risorse idriche e in conflitto tra loro. Il lato negativo di questa opinione è che si impedirebbe l’imposizione di regole sull’uso dell’acqua in grado di frenare l’eccessivo e dissennato sfruttamento della risorsa.
La spartizione equa delle risorse è il carattere indispensabile per appianare le tensioni tra paesi interessati e ciò comporta una gestione comune in maniera patrimoniale, una sorta di comproprietà. Una soluzione potrebbe essere quella di far confluire l’acqua in una sorta di “Banca mondiale dell’acqua”, amministrata congiuntamente dai governi sottoposti a “stress idrico”, che decidesse un equa ripartizione tra Stati delle risorse idriche. Occorre che i governi ricerchino urgentemente un sistema ideologico globale sostenibile compatibile cioè con lo sviluppo consumistico di acqua. La Banca mondiale vuol veder trattare l’acqua come un bene economico, ignorando le ragioni di chi sostiene che l’acqua dovrebbe essere un diritto comune dell’umanità al pari dell’aria. Essa sostiene che la privatizzazione delle risorse idriche da parte di imprese è l’unica via per evitare i conflitti e fornire a tutti l’acqua disponibile. Tuttavia questo metodo potrebbe finire con il riempire soltanto il secchio del più ricco.
Il world water gap, ovvero il deficit idrico nel mondo è in implacabile crescita. Se facciamo riferimento a questo e al fatto che le popolazioni crescono a ritmi vertiginosi vediamo come la bomba-acqua che minaccia il mondo emerga in tutta la sua portata. “Dinamite”, è il laconico commento di Peter Gleick. Egli ritiene che la maggior parte delle dispute per le risorse idriche sfocerà in discussioni, negoziati e soluzioni non violente. Tuttavia in alcune regioni attraversate da rivalità storiche, dove l’acqua è già scarsa per ragioni climatiche e sta subendo ulteriori pressioni a causa dell’aumento demografico e dello sviluppo economico e agricolo, la probabilità di conflitti violenti legati all’acqua è elevata[9].
E’ però più sul piano politico e strategico che si misura realmente il prezzo dell’“oro blu”. Più del petrolio l’acqua è un bene essenziale e chi controlla riserve e fonti di approvvigionamento vuole avere mano. E’ completamente inutile voler trovare soluzioni utopistiche e persino logiche ai problemi collegati all’acqua se non si trova innanzitutto una soluzione ai problemi politici. E’ impensabile voler affrontare i problemi idrici interstatali di una determinata regione, senza prima risolvere le più complesse questioni politiche che attraversano l’area; anche se molto spesso gli stessi problemi idrici diventano politici. I legami tra questi due livelli sono molto stretti e un atteggiamento passivo verso la scarsità idrica pregiudicherà ogni futura iniziativa di pace perché, minando la sopravvivenza economica e politica, aumenteranno i motivi di tensione[10]. Il controllo dell’acqua può fornire ad un certo paese l’opportunità di risolvere problemi politici interni o territoriali ed è per questo motivo che essa causa spesso lotte fra paesi, e questa risorsa trova posto nei principali negoziati di pace tra Stati in mezzo ad altri problemi politici, e come strumento di pressione o condizione per certe concessioni.
La crescita demografica, i bisogni differenziati ma crescenti dei paesi in via di sviluppo e dei paesi industrializzati, i fattori climatici a rischio, si tratti di siccità e di carenze croniche o di inondazioni, accentuano il carattere vitale dell’acqua che è diventata pertanto un obiettivo economico e, dunque, politico a livello internazionale. La guerra dell’acqua non appare strategicamente razionale, né ideologicamente efficace o economicamente sostenibile. L’esistenza di interessi comuni lungo una data via d’acqua di solito induce a mettere da parte le divergenze che normalmente sorgono attorno a questo bene primario. Inoltre, una volta stabilito con un trattato un regime di cooperazione in ordine alla gestione delle risorse idriche, tale regime sorprendentemente si rivela in grado di resistere alla prova del tempo, anche quando le popolazioni rivierasche interessate sono per altri versi ostili e anche se è in atto un conflitto su questioni di altra natura. Il costante riprodursi di questo fenomeno ci suggerisce che la lezione più preziosa che possiamo trarre dalla gestione del patrimonio idrico a livello internazionale è la seguente: l’acqua è una risorsa le cui caratteristiche portano generalmente alla cooperazione, mentre solo in casi eccezionali incitano alla violenza.
Da questa analisi che qui riportiamo per dovere di completezza emerge una tesi contrastante da quelle fino a qui esposte e cioè quella di Aaron Wolf il quale dice che le crisi idriche non scatenano il conflitto armato. Egli sostiene l’assenza di conflitti armati e, per contro, l’esistenza di centinaia di trattati internazionali sulle risorse idriche che hanno resistito nel tempo ai capricci e alle bizzarrie della cosiddetta “idropolitica” del mondo reale. In particolare, è emerso che la scarsità d’acqua, pur suscitando grave ansia, in generale non scatena conflitti armati e d’altro canto conduce spesso alla definizione di accordi di cooperazione[11]. Tuttavia ogni tipo di cooperazione implica delle cessioni di sovranità, cosa che spesso gli Stati non sono disposti ad accettare. La cooperazione può contribuire ad estendere il potenziale di disponibilità e di impiego dell’acqua attraverso la costruzione di dighe, bacini e riserve comuni i quali tuttavia sono percepiti come minacce alla sicurezza e innescano una spirale viziosa di accaparramento di mezzi di difesa da parte dello Stato che si sente minacciato (water security dilemma). Ironicamente siamo di fronte all’equazione secondo la quale, tanto più la cooperazione multilaterale è difficile, tanto più questa si presenta come unica soluzione per risolvere le questioni idriche del mondo.
La cooperazione internazionale dovrebbe svolgere, in tale ambito, un duplice ruolo. Da un lato essa può contribuire, indirettamente, anche e soprattutto attraverso l’individuazione di regole di diritto certe, alla formulazione di politiche di gestione integrata delle risorse idriche che considerino l’acqua come un bene comune, stimolando una attiva ed effettiva collaborazione tra quegli Stati che si trovano ad avere una compartecipazione della risorsa idrica[12]. Dall’altro la cooperazione può direttamente, finanziando gli interventi realizzati all’interno dei singoli Stati, far sì che si abbia un utilizzo più razionale dell’acqua, fornendo contemporaneamente, una serie di indicazioni sul suo uso tra i differenti settori.

1.2.          La legislazione internazionale dell’acqua.

In un contesto mondiale di diseguale ripartizione delle risorse idriche e di un accrescimento della domanda, l’acqua sta diventando un obiettivo strategico, economico e politico nazionale e internazionale, generatore di situazioni conflittuali fra Stati che possono portare a destabilizzare intere regioni. In assenza di una vera legislazione internazionale sull’acqua, tali situazioni restano dominate dai rapporti di forza. Le sempre più scarse risorse idriche provocano crescenti rivalità e pongono alla società numerosi problemi a livello locale, nazionale ed internazionale. Il diritto all’acqua può essere tutelato migliorando la legislazione e la partecipazione collettiva. Distruggere gli impianti di approvvigionamento idrico di una città può causare più danni alla popolazione civile che alle forze militari. Il Comitato della Croce Rossa Internazionale ha lanciato nel 1994 una campagna per la salvaguardia delle riserve idriche degli acquedotti in caso di conflitto armato.

Alla penuria di acqua in alcune regioni del mondo quale causa di tensioni e conflitti tra gli Stati e quindi ai fattori geografici e politici che determinano tali crisi si aggiungono problemi di tipo giuridico che vanno ad aggravare le situazioni critiche già esistenti, prima fra tutte l’assenza di un quadro legislativo internazionale in grado di disciplinare lo sfruttamento di una stessa fonte di approvvigionamento tra più Stati e di conseguenza l’esistenza di antagonismi etnici, religiosi, culturali che rendono la scarsità di acqua un elemento di grande attrito tra le relazioni politiche tra i paesi e complica l’istituzione e il funzionamento di schemi regionali di gestione fluviale. Gli oltre 280 trattati oggi in vigore riguardano tuttavia solo 61 dei 200 bacini internazionali.
            Sebbene dal 1970 la Commissione delle Nazioni Unite sul Diritto Internazionale sia stata incaricata dall’Assemblea Generale di formulare un codice di diritto internazionale per regolare lo sfruttamento delle acque fluviali internazionali e i diritti dei paesi rivieraschi per uso diverso da quello della navigazione, allo stato attuale, esiste solo una bozza di Convenzione (la Convention on the Law of the Non-Navigational Uses of International Watercourses del 1997).
Il diritto internazionale è in difficoltà quando si tratta di considerare globalmente gli usi e gli obblighi molteplici che vengono esercitati sulle acque. Bisogna, dunque, essere coscienti dei limiti applicativi delle norme giuridiche, il cui miglioramento concreto deve essere ricercato contemporaneamente ai progressi diplomatici e politici, preliminari indispensabili per disinnescare e risolvere i conflitti.
Fino a epoca recente non si è avuta alcuna norma, convenzionale o consuetudinaria che fosse, che abbia specificatamente proibito l’uso dell’acqua come arma di distruzione o, più precisamente, per distruggere strutture idriche in modo tale da causare danni alla popolazione. La IV Convenzione dell’Aia del 1907 e il Protocollo di Ginevra del 1925 non prevedevano disposizioni in grado di salvaguardare l’acqua in caso di conflitto armato. Tuttavia alcune regole in tali convenzioni potevano essere applicate all’acqua, come il divieto di utilizzare o lasciar diffondere prodotti tossici (IV Convenzione dell’Aia, art. 23), gas, liquidi o prodotti asfissianti, al pari delle armi batteriologiche (Protocollo di Ginevra).
Si è dovuto attendere il I Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949, quello riguardante la protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali in quanto all’art. 54.2 esso prevede il divieto “di attaccare, distruggere, togliere o mettere fuori uso beni indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile, quali […] le installazioni e riserve di acqua potabile e le opere di irrigazione, con la deliberata intenzione di privarne, in ragione del loro valore di sussistenza, la popolazione civile o la Parte avversaria, quale che sia lo scopo perseguito, si tratti di far soffrire la fame alle persone civili, di provocare il loro spostamento o di qualsiasi altro scopo”.
Uno dei fattori comuni dei conflitti degli anni Novanta (Bosnia, Somalia, Liberia, ecc.), fu proprio la penuria d’acqua e per questo la Croce Rossa nel 1994 lanciò una campagna per la salvaguardia delle riserve idriche e degli acquedotti in caso di conflitto armato. La proposta presentata al Simposio di Montreux mirò soprattutto a dichiarare contrario al diritto internazionale umanitario il bombardamento degli acquedotti e delle centrali idroelettriche. Secondo Luigi Nembrini, ingegnere delle acque presso la Croce Rossa e co-presidente del Simposio del 1994, è necessario che i militari inizino a porsi dei dubbi sull’opportunità di attaccare un certo tipo di obiettivo civile. Esistono regole di carattere umanitario per proteggere la popolazione civile, secondo quanto indicato dalla quarta Convenzione di Ginevra, ma per la Croce Rossa, nelle guerre moderne i principi tradizionali, tipo non provocare le cosiddette “sofferenze inutili” o non causare danni all’ambiente, non bastano più a proteggere la gente che vive nelle città. Pertanto anche le Convenzioni e i due Protocolli aggiuntivi del 1977 dovrebbero essere sottoposti ad una parziale revisione. L’articolo 54.2 del I Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni, vieta già attacchi contro “beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile” e fra questi prevede espressamente anche “le istallazioni e riserve di acqua potabile e le opere di irrigazione”. Il I Protocollo vieta “l’impiego di metodi o mezzi di guerra concepiti con lo scopo di provocare, o dai quali ci si può attendere che provochino, danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale” (art. 35.3). Questa disposizione sancisce il principio di proporzionalità in base al quale i soli atti di guerra permessi sono quelli proporzionali all’obiettivo militare da raggiungere. Sempre il I Protocollo, inoltre, stabilisce che la guerra venga condotta “curando di proteggere l’ambiente naturale contro danni estesi, durevoli e gravi” i quali compromettano la salute o la sopravvivenza della popolazione.
Un certo numero di principi sono stati emanati tanto per consuetudine internazionale quanto per i principi generali di diritto internazionale e la giurisprudenza. Il diritto internazionale dell’acqua è stato, fino ad oggi, limitato in base a un approccio liberale ad alcuni usi, come la navigazione e l’idroelettricità, poi solo in un secondo tempo, esteso agli altri usi. Nei secoli sono stati stipulati moltissimi trattati o convenzioni che enunciano il principio della libera circolazione sui fiumi considerati internazionali. Il numero dei trattati che regolano l’impiego delle acque di bacini internazionali è più esiguo, e molti di essi stanno mostrando i loro limiti mano a mano che i livelli di sviluppo dei vari paesi modificano le loro necessità idriche rendendo inadeguate le allocazioni stabilite multilateralmente, spesso secondo criteri non flessibili[13].
La materia è regolata da una pluralità di dottrine legali e di usi consolidati che si possono far rientrare all’interno di due categorie contrapposte, la prima si rifà al principio della sovranità/integrità territoriale assoluta, la seconda a quella della sovranità/integrità territoriale relativa. Senza volersi addentrare in un’analisi particolareggiata sulla dottrina giuridica, diciamo che all’interno della prima categoria rientrano: la dottrina Harmon, secondo la quale uno Stato può liberamente sfruttare le acque fluviali all’interno dei suoi confini senza preoccuparsi degli effetti sui paesi a valle; il principio opposto secondo il quale sono i paesi a valle quelli che hanno il diritto di ricevere un flusso ininterrotto d’acqua. Questi principi ritenuti ormai anacronistici in quanto considerano le risorse idriche legate alle delimitazioni di confine, piuttosto che a quelle ideologiche, hanno ricevuto uno scarso consenso in sede internazionale, sebbene siano ancora utilizzati in casi particolari.
Il principio consuetudinario, secondo il quale ogni Stato può liberamente sfruttare le acque dei fiumi internazionali senza provocare, però, alcun pregiudizio ai diritti e allo sfruttamento degli altri paesi rivieraschi, rientra, invece, nella seconda categoria. Ed è questo principio, accettato dalla gran parte degli Stati, che ha costituito l’ossatura portante delle leggi di Helsinki che, redatte nel 1966 dall’International Law Association’s (ILA), rappresentano il primo serio tentativo di regolare lo sfruttamento delle acque fluviali con un codice di diritto internazionale. Le norme di Helsinki prevedono procedure per la prevenzione e la risoluzione di dispute e per il controllo dell’inquinamento idrico. I corsi d’acqua internazionali vengono considerati come un bene comune a tutti gli Stati rivieraschi, per cui implicitamente si afferma che il loro sfruttamento non può avvenire senza la cooperazione di tutti i paesi afferenti al bacino. Il concetto fondamentale delle norme di Helsinki è il principio di equa utilizzazione. Esse introdussero un importante novità in dottrina affermando che “ogni Stato di un bacino ha il diritto, all’interno del suo territorio nazionale, ad una quota equa e ragionevole nell’uso delle acque del bacino internazionale”[14].
Tuttavia essendo l’ILA un’organizzazione di categoria che non rappresenta tutti gli Stati, le sue risoluzioni non avevano effetto di diritto internazionale a meno che non venissero adottate nella forma di convenzione multilaterale o in accordi tra Stati. Nel 1970 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite rifiutò, infatti, la proposta di adottare le leggi di Helsinki per l’opposizione di alcuni Stati che vedevano nell’ampia definizione di bacino utilizzata, un pericolo all’integrità nazionale. Tuttavia invitò la Commissione sul Diritto Internazionale a lavorare in merito alla materia cosicché essa presentò nel 1997 una bozza finale per una “Convenzione di legge per l’uso a fini non di navigazione dei corsi d’acqua”.
La bozza riprese tutti gli accordi bilaterali e multilaterali intercorsi sulla materia, le raccomandazioni e le preoccupazioni di carattere ambientale espresse a partire dal 1992 con il Summit di Rio. Essa riesce a combinare le esigenze degli Stati alla tutela della sovranità territoriale con la visione globale delle risorse idriche, sostituendo in senso restrittivo il concetto di bacino idrografico con quello di “corso d’acqua”. In particolare, si da grande enfasi al concetto di un uso equo e ragionevole delle risorse idriche da realizzare in modo da non arrecare danno agli altri Stati utilizzatori. Viene, inoltre, introdotto l’obbligo di cooperazione tra gli Stati rivieraschi allo scopo di ottenere un’utilizzazione ottimale ed una protezione adeguata dei corsi dei fiumi internazionali. Non vengono però indicate le modalità con le quali determinare se l’uso d’acqua da parte di uno Stato rivierasco è equo e non danneggia gli altri Stati rivieraschi.
Questo che rappresenta uno degli elementi più controversi, tale da ritardare la ratifica, in sede di Assemblea Generale, della Convenzione sui corsi d’acqua, potrebbe essere in qualche modo risolto considerando il valore economico dell’acqua e, quindi, il suo prezzo d’uso. In questo modo delle commissioni miste, create appositamente e composte dagli Stati rivieraschi e da paesi osservatori membri delle Nazioni Unite, potrebbero determinare le compensazioni da erogare nei confronti di quegli Stati che vedono lesi i propri diritti.
Le norme di Helsinki proposero di proibire l’avvelenamento dell’acqua, indispensabile per la salute e la sopravvivenza delle popolazioni civili. Inoltre tali regole tenderebbero a vietare la deviazione dei corsi d’acqua se tale deviazione provocasse disagi alle persone civili o danni all’ambiente. Le norme sanciscono poi che le strutture per l’approvvigionamento idrico, indispensabili per mantenere condizioni minime di sopravvivenza, non devono essere fermate o distrutte e proibisce la distruzione di sbarramenti o dighe. Infine le disposizioni conseguenti a un trattato di pace non dovrebbero privare una popolazione delle risorse idriche che le sono necessarie per l’economia e che ne condizionano la sopravvivenza. Elaborato sotto l’egida della Commissione per il Diritto Internazionale (risoluzione 2669 dell’8 dicembre 1970 dell’Assemblea Generale dell’ONU) e ispirato alle norme di Helsinki sull’unità delle risorse idriche, un progetto di convenzione per gli utilizzi dei corsi d’acqua internazionali a fini diversi dalla navigazione raccomanda l’uso “equo e ragionevole” delle acque, l’obbligo di non causare danni evidenti agli altri Stati a causa dell’uso indisciplinato delle risorse.
Attualmente coesistono diverse dottrine sull’uso delle acque transfrontaliere da parte degli Stati. Una Convenzione per la protezione e l’utilizzazione dei corsi d’acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali più specifica e meno ambiziosa, adottata il 17 marzo 1992 a Helsinki, enumera un buon numero di principi ed è rivolta soprattutto al miglioramento dell’applicazione dei trattati sottoscritti tra gli Stati in tema di acque transfrontaliere. Esistono diverse teorie che disciplinano lo sfruttamento delle acque internazionali: 1) la teoria sulla sovranità territoriale assoluta secondo la quale un corso d’acqua anche se riconosciuto come internazionale, fa parte integrante del territorio dello Stato. Secondo questa teoria uno Stato può usare liberamente le acque che attraversano il proprio territorio nella maniera giudicata più giusta per gli interessi nazionali, senza tener conto degli eventuali effetti che potrebbero prodursi al di fuori delle proprie frontiere. 2) La teoria dell’integrità nazionale assoluta favorisce invece il paese rivierasco a valle riconoscendogli il diritto a beneficiare di una portata naturale ininterrotta del corso d’acqua dello Stato a monte. 3) La teoria della sovranità territoriale limitata e integrata dice che ogni Stato ha il diritto di usare le acque che scorrono nel suo territorio, a condizione di non pregiudicare gli interessi degli altri Stati. 4) La teoria della comunanza di interessi enuncia che nessuno Stato può disporre delle acque internazionali senza consultare gli altri Stati e stabilire una cooperazione con essi (gestione integrata). 5) La teoria dell’uso equo e ragionevole secondo la quale ogni Stato ha il diritto di usare le acque del bacino al quale appartiene e di attribuirsene una parte equa e ragionevole[15].
Non esistono principi codificati in grado di tener conto dell’enorme varietà di situazioni che contraddistinguono i diversi bacini fluviali. Ognuno di essi rappresenta una storia a sé. Ogni bacino si distingue dagli altri per il modo in cui le specificità ambientali si combinano con la particolare segmentazione politica di quell’area. Se a ciò si aggiungono le disparità economiche e militari tra le diverse popolazioni rivierasche, appare evidente che è impossibile applicare principi di equa condivisione delle risorse idriche in un modo che risulti accettabile per tutti. Occorreranno decenni prima che la recente Convention on the Law of the Non-Navigational Uses of International Watercourses del 1997 divenga un punto di riferimento certo per le comunità rivierasche impegnate nella controversia. Questa bozza di convenzione, composta prevede, oltre all’equa utilizzazione, il divieto di provocare danni ad altri Stati rivieraschi. Inoltre, in linea generale la Comunità internazionale non è favorevole a una legislazione internazionale sul diritto di accesso alle risorse idriche[16].
Nei paesi industrializzati abbondano i trattati che regolano il corretto uso dell’acqua (in Europa i quattro bacini condivisi da quattro o più nazioni sono regolati da non meno di 175 accordi). Queste convenzioni o trattati sono più rari nei paesi in via di sviluppo, con maggiore probabilità di dispute internazionali. In assenza di accordi, il rifornimento idrico dei paesi più a valle è affidato alla benevolenza dei paesi a monte. Finora il diritto internazionale non è ancora stato in grado di regolamentare la gestione di queste risorse e, pertanto, la tendenza ad assumere unilateralmente il controllo è spesso sfociata in gravi controversie tuttora irrisolte, degenerando in crisi endemiche e in conflitti armati[17].
Qualche passo in avanti si sta realizzando con il programma dell’UNEP (United Nations Environment Program) per la gestione ambientale delle acque interne (EMINWA), dando la massima priorità all’aiuto per lo sviluppo sostenibile e non conflittuale delle risorse idriche nei paesi con bacini in comune[18].
            In passato i fiumi erano considerati quasi esclusivamente come vie di comunicazione e, quindi, la regolamentazione giuridica riguardava il libero accesso ad essi cosa che fece sì che lo spazio fluviale fosse sottratto in parte alle competenze nazionali per divenire oggetto di una regolamentazione internazionale. I fiumi divennero così, come i laghi, i mari e gli oceani, patrimonio comune dell’umanità ovvero res communis, sottratti alla sovranità esclusiva e piena degli Stati e divennero dominio pubblico internazionale. In questo sono compresi tre spazi: lo spazio marittimo, lo spazio terrestre e lo spazio aereo. Lo spazio marittimo, quello aereo e quello extra-atmosferico sono stati largamente regolamentati dal diritto internazionale. Lo spazio terrestre è delimitato dalle frontiere ma, il ruolo dei fiumi sul piano internazionale è stato a volte così importante che in diritto internazionale pubblico è stata stabilita una distinzione nel campo dello spazio terrestre che è stata denominata spazio fluviale. Si passa così lentamente dalla nozione di fiume come dominio pubblico nazionale a quella di fiume internazionale, dominio pubblico internazionale. Tuttavia a differenza dei mari l’internazionalizzazione dei fiumi richiede delle speciali condizioni. I fiumi rientrano nel campo del diritto internazionale pubblico ma non diventano un elemento di tale dominio strictu sensu.
Il diritto internazionale umanitario sancito dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 non affronta nello specifiche situazioni di conflitto per l’acqua ed anche il diritto internazionale generale non contempla tali casi, ma resta limitato al codice sulla navigazione e poco altro. La situazione legislativa attuale è di quasi totale mancanza di una normazione internazionale in proposito. Il diritto internazionale generale dovrebbe essere dotato di una corretta regolamentazione legislativa riferita ai flussi di acqua e di una normazione nel caso che questi vadano a provocare conflitti armati. Il diritto internazionale umanitario dovrebbe prevedere norme circa l’approvvigionamento di acqua a quelle popolazioni colpite dai conflitti. Il principio di proporzionalità e la protezione dell’ambiente dovrebbero prevedere norme specifiche per la salvaguardia delle risorse idriche delle popolazioni civili e considerare un attacco a quelle risorse come un attacco alle popolazioni stesse ovvero un crimine di guerra. 
Anche se negli ultimi anni le organizzazioni internazionali hanno cercato di codificare i principi generali sulla disciplina delle risorse idriche comuni, ancora non esiste un corpo codificato di norme internazionali, che sia comunemente accettato da tutti gli Stati e, in particolar modo, da quelli rivieraschi, i quali sono sempre molto attenti a preservare la loro sovranità riguardo ai corsi d’acqua che li riguardano[19]. L’unico modo per sfruttare al massimo le risorse idriche di un bacino, senza perdite inutili, sta nella cooperazione totale e complementare dei paesi rivieraschi.  Secondo i principi del diritto internazionale, tutti gli Stati che si affacciano sullo stesso fiume hanno gli stessi diritti sulle sue acque.
La legislazione delle acque e la gestione del suolo, strettamente collegate, creano conflitti tra la normativa degli attuali sistemi di conduzione terriera ed i diritti acquisiti nel tempo. Per eliminare queste contraddizioni occorrerebbero nuove politiche e nuove leggi tra cui: assegnare le risorse idriche differenziandole per tipo di utenza; ridurre i contrasti tra chi usa l’acqua per l’approvvigionamento e chi la utilizza per lo smaltimento dei rifiuti; promuovere un uso corretto dell’acqua per evitare gli sprechi; ridimensionare il ruolo governativo nei rigetti delle zone rurali accentuando il peso delle associazioni locali e rimovendo gli ostacoli per tassare l’acqua e tassare i costi; elaborare sistemi di conduzione del suolo basati su diritti scritti; imporre l’utilizzo di acque di rifiuto per generare acqua pulita; creare o migliorare un’efficace normativa sulle acque per amministrare tutto il settore idrico ed in particolare quello rurale. L’acqua può essere già scarsa in molti paesi, ma se ne evitiamo gli sprechi e la utilizziamo in maniera appropriata, dovrebbe essere possibile garantire un rifornimento sufficiente ancora per molti anni.


1.3.         Acqua, sicurezza e globalizzazione.

Oggi esistono le condizioni per nuove forme di aggressione, definibili non tradizionali in contrapposizione alle aggressioni di natura militare. La sicurezza nell’era della globalizzazione è messa in pericolo da larvate situazioni di tensione che possono avere come causa la penuria di acqua. Questa mancanza può causare l’instabilità politica e sociale di un’intera area, e può portare ad un pericoloso effetto spillover che spesso sfocia in un confronto armato.

I problemi ambientali mondiali sono caratterizzati dall’interdipendenza globale. I problemi legati all’ambiente possono definirsi questioni “globali” non tanto perché molte di loro assumono per loro natura un carattere globale (l’effetto serra, l’innalzamento delle temperature, la desertificazione, le biodiversità, ecc.), transnazionale (le piogge acide) o ripetuto in varie parti della Terra (la scarsità d’acqua), quanto perché le loro cause sono spesso dovute agli effetti causati dalla globalizzazione (l’economia globale, le nuove tecnologie, ecc.). In quanto tale la globalizzazione non può non riguardare ogni problema esistente nella politica ambientale mondiale; inevitabilmente proprio perché globale essa va a toccare ogni problema riguardante la politica degli Stati (economia, difesa, problemi sociali, ambiente, ecc.).
Del problema dell’acqua, parte del più globale problema ambientale, si può dire ciò che si può dire della globalizzazione e, infatti, l’una è oggi figlia dell’altra. Per effetto della globalizzazione la risorsa idrica può generare o genera conflitti. Un vicino assetato non è mai un buon vicino e può mettere a repentaglio la sicurezza di un altro paese o di un’intera regione, per effetto di un processo di spillover.
La sicurezza idrica significa anche sicurezza politica e strategica e può per questo provocare conflitti ma anche stimoli alla cooperazione e al superamento di contrasti e tensioni latenti. La sicurezza di uno Stato può essere definita come l’aspettativa di insuccesso delle aggregazioni alla sua esistenza da parte di altri Stati. Le regole della sicurezza politico-territoriale e della competitività economica non esauriscono i problemi della politica internazionale legati all’ambiente perché tali problemi sono portatori di disordine e incertezza della convivenza nel sistema mondiale.
Nelle aggressioni non tradizionali i danni non sono provocati in seguito ad un’azione diretta, come avviene nel caso di un bombardamento, ma per l’effetto collaterale di un’attività considerata normalmente pacifica e non violenta come, ad esempio, la costruzione di una diga alle sorgenti di un fiume transnazionale che causerà inevitabilmente una riduzione del flusso di acqua a discapito di un paese avversario che si trova a valle e che dipenda da questa stessa fonte idrica, arrivando a compromettere la sua esistenza.
Le aggressioni non tradizionali possono essere mascherate da attività lecite, come la manipolazione del flusso di un fiume o come nel caso di attività industriali dannose per l’ambiente. Tali aggressioni presentano l’ulteriore vantaggio di poter essere effettuate con mezzi a basso contenuto tecnologico e facilmente reperibili.
Al di là dell’attenzione che un paese può dedicare al rispetto dell’ambiente attraverso una severa normativa interna e l’adesione ad accordi internazionali, resta sempre la possibilità di danni provocati dall’attività di altri paesi. Gli effetti dell’inquinamento idrico ed atmosferico fuoriescono, infatti, dai confini politici del responsabile, arrivando ad interessare non solo le aree immediatamente limitrofe ma anche il continente di appartenenza o addirittura tutto il pianeta. I problemi ambientali sono globali perché sono divenuti transnazionali cioè oltrepassano qualsiasi confine statale e perciò diventano oggetto di cooperazione internazionale. Ciò è dovuto alla rete di rapporti che caratterizza l’ecosistema, intrecciata così strettamente che diventa impossibile stabilire un limite spaziale alle conseguenze provocate da un mutamento in una sua parte. Per questo motivo anche se un problema ambientale sembra apparentemente regionale ovvero limitato ad una ristretta area territoriale questo potrebbe rapidamente divenire di portata globale e interessare così vaste aree quando non addirittura il mondo intero. In altri termini anche se un singolo problema interessa solo una determinata area geografica del mondo questo può essere considerato di portata globale nella misura in cui esso viene condiviso per condizioni, caratteristiche, effetti o problemi da una vastità di altri paesi disseminati in tutte le parti della Terra. Non necessariamente, dunque, un problema legato all’ambiente diventa globale solo se scarica i suoi effetti in tutti i paesi del globo (come nel caso dell’effetto serra, del riscaldamento terrestre, del buco dell’ozono, ecc., problemi notoriamente di carattere planetario) ma anche se (come è il caso dell’acqua) questo, preso singolarmente per ogni regione interessata, mostra di avere caratteristiche comuni a diversi paesi separati e distanti tra loro ma con medesime problematiche politiche e sociali.
La ricerca scientifica, l’informazione globale, il progresso, hanno imposto all’evidenza generale: 1) la natura transfrontaliera di ogni forma di inquinamento e di degrado ambientale, posto che qualsiasi aggressione o turbativa delle risorse naturali di ciascuna regione ha riflessi diretti o indiretti sulle altre parti del pianeta, ormai rimpicciolito; 2) la globalizzazione del tema dell’ambiente, nel senso che la politica ambientale si pone come una costante onnicomprensiva, sempre presente in funzione di limite e di completamento rispetto a tutte le altre politiche di settore; 3) la necessità di una sorta di codificazione universale del diritto ambientale, stabilendo regole primarie comuni e cogenti per tutti i paesi, estrapolate dal quadro semplificato e ravvicinato delle legislazioni nazionali; 4) la necessità di realizzare meccanismi istituzionali e legislativi volti a garantire un intervento globale a salvaguardia degli interessi ambientali essenziali per l’umanità, in particolare attraverso poteri e autorità sovranazionali di governo e di giurisdizione[20].
Tuttavia, una delle maggiori cause di crisi nell’attuale ordine internazionale risiede proprio nel baratro sempre più profondo che si è venuto a creare fra Nord e Sud del mondo. L’acqua è il bene primario che in modo ogni giorno più netto separa il Nord dal Sud del mondo. E’ ormai noto che essa non è una risorsa globalmente scarsa ma che non è uniformemente distribuita sul pianeta e, soprattutto, non è distribuita in modo coerente con i fabbisogni: all’abbondanza di cui beneficiano molti paesi sviluppati si contrappone la scarsità patita da diversi paesi in via di sviluppo che ne condiziona il progresso economico e mette a repentaglio la sopravvivenza di intere popolazioni. Tutto ciò aggraverà le tensioni tra Nord e Sud del mondo rappresentando uno dei fattori più acuti di crisi internazionale. Il principale motivo di conflitto internazionale deriva, infatti, anche dalle enormi differenze di ricchezza tra i paesi ricchi del Nord (topdogs) e i paesi poveri del Sud (underdogs). Nei difficili rapporti politico-economici Nord/Sud, la tematica della tutela ambientale rappresenta attualmente un fattore destabilizzante, campo di forti tensioni per l’azione dei paesi industrializzati che tendono ad imporre ai Paesi in via di sviluppo regole sovranazionali di difesa delle ultime riserve ecologiche del pianeta[21].
Sull’esempio dei paesi industrializzati, anche quelli in via di sviluppo tendono a compromettere indiscriminatamente le loro fonti di ricchezze naturali, accettando il degrado ambientale e il depauperamento dell’ecosistema. Certamente non si può ostacolare lo sviluppo economico, aspirazione legittima di qualsiasi paese, ma è possibile promuovere la utilizzazione ragionata delle risorse idriche. Il processo di sfruttamento “degradante” delle risorse idriche da parte dei paesi in via di sviluppo vede coinvolte sovente precise responsabilità dei paesi industrializzati fruitori, che si giovano della fragilità dell’apparato politico locale, del forte indebitamento estero per ottenere condizioni di estremo favore di mercato.
Resta ancora tanto da fare per eliminare le enormi discriminazioni tra il Nord e il Sud del pianeta, per disciplinare la responsabilità internazionale da danno ambientale e, infine, per istituire appositi autonomi e imparziali organismi di garanzia internazionale, onde assicurare il controllo e il monitoraggio preventivo ambientale planetario, nonché per rendere effettiva la repressione contro i grandi crimini idrici (la creazione di una sorta di “Tribunale blu” internazionale permanente in sede ONU, sulla scia di quanto si sta facendo in tema di crimini contro i diritti umani, o il rafforzamento delle competenze e dei poteri dei già esistenti organi internazionali di garanzia).

1.4.         Conclusioni e possibili soluzioni.

L’ambiente ha bisogno di strategie unitarie e globali. Nessuno può illudersi di tamponare i problemi procedendo isolatamente. L’ambiente è diventato un’emergenza improrogabile: lo è per la politica, lo è per le imprese, lo è per i cittadini che chiedono una qualità della vita migliore dove acqua, aria, cibo non minaccino la salute[22]. Possiamo individuare due grandi categorie di soluzioni per le situazioni di grave carenza idrica portatrice di conflitti. Le soluzioni tecniche ed economiche, tendenti alla razionalizzazione degli usi, e le soluzioni istituzionali e giuridiche che mirano a neutralizzare e comporre i conflitti sugli usi stessi.
         Abbiamo detto che la scarsità d’acqua dolce non si configura come un problema globale ma come un problema regionale. Tuttavia nei prossimi anni il numero di comunità o di interi paesi alle prese con una cronica penuria d’acqua è sicuramente destinato ad aumentare per effetto dell’aumento della popolazione mondiale e per un conseguente squilibrio tra domanda e offerta, con un correlato incremento dei conflitti interni ed internazionali per il controllo di questa risorsa strategica.
         A questo proposito è indispensabile che in futuro la Comunità internazionale si sforzi nel senso dell’elaborazione di un quadro giuridico di riferimento più efficace di quello attuale e l’adozione di misure tese a incentivare comportamenti virtuosi che nessuna regola di diritto internazionale sarà mai in grado di imporre senza il consenso delle parti in causa. La politica adottata da alcune organizzazioni internazionali, come la Banca Mondiale, di non concedere sostegno finanziario per progetti riguardanti risorse idriche contese da più paesi, va sicuramente nella direzione auspicata. Un analogo orientamento sarebbe comunque auspicabile anche nei confronti di progetti suscettibili di ingenerare conflitti interni, che spesso si traducono in fonte di tensioni che travalicano gli stessi confini nazionali.
         Gli sforzi dovrebbero essere indirizzati verso un aumento globale d’acqua, in quanto le contese per la ripartizione delle risorse comuni si risolvono in un “gioco a somma zero” che produce solo una progressiva esasperazione dei conflitti. Il problema nuovo è l’insufficienza, o addirittura l’assenza, delle istituzioni necessarie a valutarli e ad affrontarli a livello globale.
         La possibilità di avviare cambiamenti politici all’interno dei paesi è condizionata dalla pressione contraria del mondo dell’industria e degli affari e dipende dalla capacità dei governi di resistere agli ostacoli posti dagli interessi organizzati che non sono disposti a prendere iniziative di contenimento e riduzione dei danni prodotti dal sistema industriale sull’ambiente. Il primo gradino della politica ambientale consiste nel fissare criteri giuridici riconosciuti da tutti, cioè principi generali di gestione collettiva dell’ambiente terrestre e regole di condotta per i governi. Il secondo gradino è l’esecuzione della politica ambientale ovvero l’applicazione delle regole concordate.
         I principali strumenti per l’incremento dell’offerta globale di acqua dolce sono la desalinizzazione e l’importazione d’acqua dalle regioni ricche che però trovano limiti negli elevati costi di realizzazione. Poiché scarsità d’acqua e povertà sono spesso due fenomeni correlati, vi è la necessità di un sostegno finanziario da parte della Comunità internazionale. Talvolta ai vincoli tecnico-finanziari si aggiungono problemi di ordine politico, ossia i veti incrociati messi in atto da paesi che, nonostante i benefici potenzialmente scaturenti da tali opere, rivelano con la loro opposizione ai progetti la preoccupazione di un’eccessiva dipendenza da fonti esterne o quella di un aumento del peso economico o politico degli altri paesi confinanti. In altri termini, la stessa conflittualità che impedisce di trovare un accordo sulla condivisione delle risorse idriche regionali condiziona negativamente anche la realizzazione di progetti tendenti ad assicurare un incremento globale dell’offerta d’acqua[23].
Il problema risiede nel management delle risorse idriche: controllarle implica costi politici, economici e sociali molto alti, specie per quanto riguarda lo sviluppo di risorse non convenzionali, e resta da vedere chi vorrà accollarsi il peso di tutto questo; molto probabilmente nessuno vorrà sostenere l’onere di sviluppare progetti di desalinizzazione se crede di aver diritto a risorse già esistenti. Questa è esattamente la posizione dei Palestinesi.
Per fermare l’insostenibile sfruttamento delle risorse idriche, abbiamo bisogno di strategie per la gestione delle acque a livello nazionale e locale, tramite un’adeguata legislazione internazionale. Queste strategie dovrebbero includere delle strutture, dei prezzi che favoriscano tanto l’equità quanto l’efficienza. Abbiamo necessità che nell’agricoltura si verifichi una “rivoluzione blu” che si concentri sull’aumento della produttività per unità idrica, unitamente a una migliore gestione dei bacini idrografici e delle pianure irrigue. Ma nulla si verificherà a meno che non riusciamo a svolgere delle campagne di informazione e mobilitazione.
Passato il principio che l’acqua è “patrimonio indisponibile dell’umanità”, cioè che nessuno può appropriarsene togliendola ad altri, devono essere gettate le fondamenta sulle quali edificare una forte “cultura idrica”, pena la sete generalizzata e una riaperta stagione di nuovi conflitti per l’acqua.
Lo sfruttamento della terra da parte dell’uomo è la causa principale sia della carenza che dell’inquinamento dell’acqua. Lo sviluppo dell’agricoltura, l’urbanizzazione e l’industrializzazione sono le cause dei danni maggiori e quindi devono essere al centro delle attività di gestione dell’acqua. L’acqua è, in tutti i sensi, una risorsa che scorre: le azioni compiute in una parte del corso d’acqua possono avere un profondo impatto sull’uso dell’acqua da parte dell’uomo in altre parti. Dobbiamo essere consapevoli che “ognuno di noi vive lungo lo stesso corso d’acqua”. Una gestione efficace dell’acqua diventa ancora più difficile quando questa risorsa è condivisa fra più nazioni. Non è sempre facile raggiungere un accordo tra le nazioni sulla condivisione di una risorsa d’acqua su cui esse hanno diritto. Spesso gli accordi non impediscono che le controversie degenerino in conflitti, concentrati nelle zone più aride.
Oggi, diamo per scontata la disponibilità di acqua. Continuiamo a comportarci come se l’acqua dolce fosse una risorsa eternamente disponibile. Bisognerebbe imporsi una “cultura del limite”, ancora lontana dalla società moderna, miope di fronte all’ovvio. Il concetto di acqua come una gratuita e illimitata risorsa cioè simile all’aria che respiriamo non sembra oggi essere più valido. La promozione del concetto di acqua come un bene economico piuttosto che una risorsa gratuita ed illimitata è la chiave per un uso più accorto di questo bene prezioso.